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Giuseppe Pollack, progetto per la facciata del Duomo di Milano (particolare), 1806

Archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo, Milano

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Giuseppe Pollack, progetto per la facciata del Duomo di Milano (particolare), 1806

Archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo, Milano

Il genio di Milano è la sintesi del bello e dell’utile

La Biblioteca Ambrosiana ha ospitato un convegno sul legame tra cultura ed economia e sul ruolo del capoluogo lombardo nel coniugare, ieri come oggi, tradizione e innovazione

Paolo Grandi

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Il 21 marzo la Veneranda Biblioteca Ambrosiana ha ospitato, nella Sala delle Accademie, l’incontro «Cultura ed Economia: Milano e il suo genio per la civitas di domani», ispirato alla mostra «Il Genio di Milano: crocevia delle arti dalla Fabbrica del Duomo al Novecento», allestita dal 23 novembre al 16 marzo a cura di Marco Carminati, Fernando Mazzocca, Alessandro Morandotti e Paola Zatti presso le Gallerie d’Italia di Piazza Scala e realizzata in partnership con la Veneranda Biblioteca Ambrosiana

Il convegno, al quale sono intervenuti S.E. il Cardinale José Tolentino de Mendoça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e Paolo Grandi, Chief Governance Officer di Banca Intesa, moderati dal giornalista del «Corriere delle Sera» Giangiacomo Schiavi, è stata un’occasione per approfondire il legame tra cultura ed economia e il ruolo della città di Milano nel coniugare tradizione e innovazione. Monsignor Marco Maria Navoni, Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Giovanni Bazoli, Presidente Emerito di Intesa San Paolo e l’Assessore del Comune di Milano, e Tommaso Sacchi hanno portato i saluti istituzionali. Le conclusioni sono state affidate all’Arcivescovo di Milano, S.E. Mons. Mario Delpini.

Proponiamo qui integralmente l’intervento di Paolo Grandi.

 

«Abbiamo percorso a piedi in entrambi i sensi una delle strade più popolari, godendoci la tranquillità della gente e augurandoci di poterla esportare negli irrequieti, frenetici, spossanti mercati di casa nostra… Andiamo di fretta il che va bene. Però quando la giornata lavorativa giunge al termine, seguitiamo a pensare a perdite e guadagni, pianifichiamo la giornata successiva, ci portiamo addirittura a letto le preoccupazioni del nostro lavoro e ci agitiamo e ci pensiamo sopra...».

Note autobiografiche del milanese medio, in gita in provincia? No, Mark Twain che nel 1869 così commenta il piacere di una passeggiata serale... a Milano. E la confronta con la sua America. Quindi, noi siamo, nel frattempo, diventati americani o che altro?

Il tema che ci viene affidato «Cultura ed economia: Milano e il suo genio per la civitas di domani» propone due orizzonti alle nostre riflessioni: l’uno, ampio e di vastissima portata, il binomio e l’interazione tra economia e cultura; l’altro più circoscritto nello spazio e nel tempo, Milano e la sua capacità di rimanere competitiva nei secoli che ha attraversato, proiettato a sua volta in uno scenario ampio e problematico: quale nuovo paradigma del binomio economia e cultura Milano è in grado di sintetizzare per dare attraverso il suo «genio» un contributo positivo alla civitas, alla comunità, di domani?

Quindi partiamo da Milano e dal suo genio per verificare come economia e cultura abbiano concorso a determinare «quel» genio di Milano, quali altre componenti abbiano concorso, a loro volta, a dare sostanza a tale originalità e verifichiamo se per quella ricetta, capace di modificarsi nel tempo senza compromettere il gusto, gli ingredienti siano ancora tutti disponibili oppure, se ci fossero minacce all’orizzonte, se esistono tutte le risorse per affrontarle con successo.

A partire da Bonvesin della Riva nel 1288 e passando per Verri e Cantù, nella letteratura che si occupa del «genio di Milano» sono richiamati fatti e circostanze che ricorrono nel tempo e danno fondamento a quelli che oggi, in un linguaggio non solo manageriale, definiremmo «fattori critici di successo», alcuni tangibili, come le risorse naturali, il posizionamento geografico..., altri intangibili, quali la capacità di adattarsi ai cambiamenti e alle trasformazioni, la capacità di attrarre e integrare genti di ogni provenienza.

Questo segnala una consolidata vocazione della città, una vocazione che potremmo definire «inclusiva» che ha concorso, al pari dell’economia e della cultura, a generare quella miscela virtuosa che ha dato concretezza al genio di Milano: vocazione inclusiva (che può anche corrispondere alla società aperta di popperiana memoria o all’esercizio della Fiducia, trama del noi, oggetto dell’edizione in corso del Soul festival) significa fare sì che quelle risorse e quei talenti che qui convergono siano in sintonia tra loro e il risultato finale sia più della somma delle parti. È qualcosa di più della mano invisibile di Smith. 

È quella che oggi, sulla scorta dell’esperienza fatta nei secoli e nelle diverse circostanze che si sono succedute, definiamo «coesione sociale». Teniamo presente questo concetto, perché lo riprenderemo nel trarre qualche conclusione e individuare una prospettiva per la civitas di domani [per il futuro].

Tornando a noi, Milano ha così dimostrato nel tempo di saper attirare dall’Italia e dal Mondo i più disparati talenti che di volta in volta hanno dato «sostanza» e slancio ai cambiamenti che andavano delineandosi.

Attenzione però, non stiamo riferendoci a un percorso lineare e senza traumi: il percorso dell’innovazione e del cambiamento passa necessariamente per momenti di crisi, di discontinuità. Quel che conta in questa nostra prospettiva è però la capacità che Milano ha sempre avuto di uscire dalle crisi riprendendo il bandolo della matassa e tornando a essere protagonista, ad avere l’iniziativa. E questo non è affatto scontato o comune a tutte le città paragonabili che nel tempo si sono trovate a dover affrontare drastici cambiamenti indotti da fenomeni tanto economici quanto naturali o sociali. In Italia abbiamo esempi noti. Teniamo, allora, anche questo tema della discontinuità un attimo da parte, come abbiamo fatto poc’anzi con la coesione sociale.

In questo flusso del divenire della città, l’economia è stata, quindi, una forza mai sopita, agente di una formidabile capacità di innovazione e trasformazione per effetto della quale la città è stata sempre in contatto con quella parte di Mondo che portava con sé le novità e la spinta a soddisfare sempre nuovi bisogni, a cogliere opportunità, nella tecnologia, nel commercio, nella progettazione, cui si è aggiunta, in modo incisivo e stabile, la finanza.

E la cultura?

A questo proposito, monsignor Marco Maria Navoni nella Prefazione al catalogo della mostra che ci porta qui oggi pomeriggio, citando il cardinale Federico Borromeo a proposito della Biblioteca Ambrosiana, scrive di un luogo dove «potesse manifestarsi un vicendevole commercio di lettere» che Mons. Navoni attualizza con l’espressione: un fecondo dialogo culturale. Dialogo culturale che si è svolto ininterrottamente per secoli (come la Mostra delle Gallerie d’Italia dimostra), dialogo culturale alimentato dalle genti che su Milano convergevano e ancora convergono, chiamati dalla città attrattiva e inclusiva.

Scorrendo nel tempo, con l’espressione l’«idea della magnificenza civile» Carlo Cattaneo, personalità che, come poche altre, è emblematica del modo d’essere milanese, indicava, nel 1839, un traguardo di civiltà urbana sintesi del «bello» e dell’«utile». Una rappresentazione delle ambizioni che Milano era capace di perseguire e realizzare, mobilitando le capacità e l’orgoglio di «gente comune e ceti professionali» che andavano consolidando il proprio ruolo nel secolo che avrebbe portato a grandi innovazioni economiche e sociali. Cultura, il bello, ed economia, l’utile, declinate in un orizzonte umanistico, virtuoso, positivo: la magnificenza civile.

Infine, una conferma in chiave contemporanea viene da Pier Luigi Sacco che sul «Sole 24ore» del 20 febbraio sottolinea il crescente interesse «del sistema dell’arte globale per il capoluogo lombardo…alimentato da diversi fattori…(tra gli altri) un tessuto di collezionismo storico di altissimo livello e una vasta base imprenditoriale che garantisce una domanda significativa e stabile di arte contemporanea». Una visione che più attuale non potrebbe essere del binomio cultura ed economia, di nuovo connesse nel proprio essere di reciproco interesse ed aiuto.

[Ma forse con una sfumatura che vale la pena di registrare, una sfumatura che pare accentuare l’aspetto economico a supporto di quello culturale, una sfumatura che andiamo a porre accanto alla coesione sociale e alla discontinuità che ci siamo tenuti in evidenza per parlarne tra poco.]

Quindi tutto bene? Possiamo confidare sulla prosecuzione del trend? Milano è sempre in grado di generare il proprio futuro? E tutto questo quale civitas ha generato e, guardando avanti, quale altra potrà generare?

Si viene a Milano per diventare italiani: non è un’affermazione azzardata, è la realtà che ha visto e vede artigiani, operai, imprenditori, professionisti, artisti, accademici, intellettuali giungere a Milano da ogni parte d’Italia (e del Mondo) e qui amalgamarsi nel tessuto sociale che ha risposto nei secoli ad alcune determinanti di fondo. Ma in che misura Milano sempre di più assimila e assomiglia alle grandi metropoli del Mondo e con quali conseguenze?

Riprendiamo allora uno dei temi che abbiamo tenuto da parte: la discontinuità. Un fenomeno non nuovo, lo abbiamo sottolineato, che ha scandito nel tempo i passaggi attraverso i quali Milano cambia e si apre al futuro. Quale discontinuità ha rilievo oggi e quali effetti produce sul modo di essere della città in tutte le sue componenti e in particolare sul paradigma economia e cultura?

Due sono i fattori che possono indurre o aver già indotto una discontinuità: da un lato la tecnologia, la digitalizzazione a oltranza che con la sua dirompente pervasività frantuma e costringe a ricomporre i rapporti tra le persone in tutti gli ambiti della vita quotidiana. Non è un giudizio, non è questa la sede, ma è un dato di fatto. L’impatto su ciascuno di noi, sul nostro essere individui è amplissimo e innegabile, ed è per molti aspetti «divisivo» e «selettivo» cioè ha una sua traiettoria che costringe ciascuno a vedersela con sé stesso e con le proprie attitudini e capacità di adattamento.

Lo abbiamo ricordato poc’anzi, i fattori di cambiamento sono sempre stati importanti e fonti di «crisi», ma il vettore tecnologico questa volta agisce nelle mani di ciascuno e di tutti: non è solo un telaio che sostituisce più operai, non è una calcolatrice elettronica che fa giustizia di decine di contabili. È una tecnologia potentissima e diffusa che rompe i paradigmi dello spazio e del tempo: cioè va a modificare profondamente i legami tra le persone rendendo, ad esempio, il luogo fisico, una città ad esempio, come un punto d’incontro non più «necessario» per dare concretezza a un’idea, a un progetto, a un’iniziativa. Le potenzialità, non dobbiamo sottolinearlo qui, sono enormi, ma quello che qui e oggi ci importa è prenderne in esame l’effetto dirompente sui rapporti interpersonali.

Perché, da questa prospettiva, se non adeguatamente colta e gestita, può affiancare e aggravare un altro fattore di discontinuità che pare essere già in moto: il venir meno o comunque l’indebolimento della vocazione inclusiva, così l’abbiamo definita poc’anzi, cioè di un fattore determinante della competitività di Milano. Il suo essere capace di attrarre, accogliere, amalgamare dando concretezza alla risposta della città ai cambiamenti in corso. Milano è stata una città per tanti che ha cercato di dare una chance a tutti. Senza tema di apologia inopportuna, un’iniziativa come quella dei Martinitt e delle Stelline ha dimostrato una volontà di dare un futuro a tutti considerando sì il lavoro una necessità, ma anche un’opportunità irrinunciabile.

Oggi Milano rischia seriamente di diventare una città per pochi, privilegiati. L’andamento delle quotazioni immobiliari ne è il segnale più evidente e costituisce un ostacolo serio alla possibilità che, come in passato, Milano sia meta e crogiolo di talenti che possono insediarsi in città e partecipare a una nuova avvincente fase di crescita e sviluppo, all’ennesima mutazione che la città sarà in grado di effettuare. Se la città perde la capacità di essere inclusiva indebolisce o annulla uno dei «fattori critici di successo»: l’attrattività. Qui devono sempre poterci arrivare tutti quelli che vogliono giocarsi i propri talenti.

Ma più preoccupante è il risultato del combinato disposto di frantumazione dei rapporti sociali e della perdita della vocazione inclusiva: l’una e l’altra possono essere i vettori che minano profondamente quella «coesione sociale» che abbiamo individuato essere la componente più caratteristica, originale e continua del «genio di Milano» nel tempo.

Questo porta a perdere una propria identità e quindi a perdere quegli elementi intangibili che ne hanno fatto un «modello»?

Milano assimila, integra, trasforma e innova: la miscela è stata ed è tale da essere tuttora la locomotiva del Paese. Questo non è e non deve essere un vanto sterile e fine a sé stesso, ma prima di tutto la constatazione che Milano restituisce al Paese opportunità attraverso quelle risorse che è stata capace di attrarre.

E in questa prospettiva, il problema della coesione sociale come uno degli elementi caratteristici che ha concorso al genio di Milano non è un problema di generosità o di inclusione ideologica: è in realtà il voler preservare uno degli elementi che hanno consentito a Milano di essere stata capace di attraversare i secoli cambiando, adattandosi, innovando e sempre restando sulla cresta dell’onda di quanto accadeva e accade nel Mondo, restituendo al Paese la possibilità di rimanere nel futuro.

Economia e cultura come possono contribuire a contrastare il venir meno della coesione sociale?

L’economia non si arresta, mai, cambia ritmo, conosce volatilità e incertezza e cambia direzione se incontra ostacoli insormontabili. E questo non è nell’interesse di nessuno. Ma come contribuire a mantenere quell’equilibrio nel quale i soggetti interessati, individui, istituzioni, soggetti economici, attori sociali, concorrono al risultato virtuoso ed efficace che abbiamo definito «coesione sociale»?

Quel che si può intuire è la necessità di un governo dei trend, di una consapevolezza dei fenomeni in atto e dei rischi collegati che richiama necessariamente alla variabile culturale come a uno dei timoni che possono concorrere a fissare la rotta che, in continuità con il passato, consenta a Milano, all’Italia, all’Europa, più che mai rispetto a quanto accade altrove in questo momento, di rimanere ancorata a principi e buone prassi di coesistenza e sana dialettica nella società civile.

Cultura e consapevolezza si alimentano a vicenda, in questo senso la cultura può essere quella sintesi catalizzatrice delle migliori forze in campo tutelando, al tempo stesso, l’equilibrio tra politica ed economia, mantenendo ferma l’attenzione verso il buon governo e la necessità del concerto tra pubblico e privato, un privato che ha risorse molto più abbondanti del pubblico e, quindi, maggiori responsabilità nel dare chances alla cultura di esprimersi al meglio, superando un modello che si fermi al mecenatismo compiaciuto.

Questo significa che non possiamo affidarci al trend, alla continuità inerziale: molto probabilmente non è mai stato così, sicuramente ci sono forze in cammino che ci sovrastano, ma credo sia altrettanto certo che queste forze camminano sulle nostre gambe, queste forze si esprimono nelle vite degli uomini e delle donne, e anche in questo caso, anche per il futuro prossimo se c’è del buono dobbiamo tutelarlo e farlo emergere e possiamo farlo solo noi, credendoci e dandoci da fare, come ogni buon milanese sa fare. [magari col cuore in mano].

Paolo Grandi, 25 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

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