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Luciana Fabbri
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La prima opera di Enzo Cucchi che incontra il visitatore entrando alla Vito Schnabel Gallery («Enzo Cucchi: Mostra Coagula» fino al 22 maggio) è una grande rete d’acciaio, con sopra dipinto un uomo in barca, intento a dipingere nonostante la sua imbarcazione stia affondando. L’opera è composta da poche ma decise pennellate in smalto blu, bianco e nero, e gran parte della superficie è lasciata vuota. La pennellata essenziale e la grande dimensione della rete, rispetto alla figura, fanno sì che, da lontano, si percepisca prima l’oggetto metallico industriale rispetto al dipinto.
Proseguendo nella sala principale, siamo sorpresi da una grande quantità di opere di piccole e medie dimensioni, installate lungo tutto il perimetro della galleria. «È come un’onda, mossa, un po’ emozionata. Sennò tutto uguale ti blocca il cuore», dice Cucchi. I colori intensi riempiono lo spazio di un’energia vibrante. L’allestimento suggerisce una narrazione, una continuità. Tra le prime opere notiamo il dipinto di uno scheletro che sorregge una casa da cui straborda un flusso indefinito di forme, vicino un animale preistorico davanti a un’abitazione, subito accanto il volto di Gesù. Il linguaggio simbolico di Cucchi sembra attingere da memorie profonde, intrecciando riferimenti alla sua storia personale con radici culturali, artistiche e religiose collettive. Sono visioni oniriche dipinte in un linguaggio simbolico. Il simbolismo è celato e le immagini non si rivelano completamente a noi.
I quadri sono arricchiti di elementi di ceramica e legno, applicati in modi diversi: appesi ai lati, incollati sulla superficie o sospesi con fili di rame, creando proiezioni di ombre. «Tutte queste opere nascono dall’ombra. Le cose all’ombra si mantengono». Poi aggiunge: «Non è consueto per il linguaggio loro (degli americani, Ndr). Qui la superficie è sempre molto evidente, vedi quello che c’è». Motivi ricorrenti, animali preistorici, abitazioni, montagne e paesaggi, ritornano in variazioni sempre diverse. Veri e propri squarci attraversano alcune superfici, aumentandone lo spessore. L’artista lamenta come molti curatori e critici di successo oggi non abbiano scritto nulla, e ricorda la profondità di autori come Berenson, Ortega y Gasset, Alberto Arbasino.
Parlando di New York racconta: «Un tempo qui il tessuto era più morbido, emozionato… c’erano vari spazi, gallerie tutte sgarrupate, ora è tutto standardizzato, estremamente pulito. L’energia viene consumata tragicamente… ma per andare dove? Bisogna ritrovare il tempo per la riflessione...La poesia è una cosa per i poveracci, una roba un po’ sfasciata. Rispetto a una superficie intatta, impenetrabile».
Al centro della sala, quattro marmi policromi raffigurano bambini: uno con il volto di un teschio, un altro nell’atto di piangere, o defecare, come in «Piscia, caca, muori» (2023). Il linguaggio eccedente di Cucchi si sottrae al controllo razionale, presentando un sovraccarico di segni, materiali e riferimenti eterogenei. L’inclusione nelle sue opere di creature ibride, animali ispirati ai grotteschi, e la sovente annessione di elementi che strabordano dal corpo dell’opera, sembrano rimarcare un rifiuto dell’idea di purezza formale e ogni logica di progressione modernista.

Una veduta della mostra «Enzo Cucchi: Mostra Coagula» alla Vito Schnabel Gallery, New York, 2025. © Enzo Cucchi; foto: Argenis Apolinario; courtesy the artist and Vito Schnabel Gallery
Un ruolo centrale nell’allestimento è giocato dalle ceramiche «angolari», installate agli angoli della galleria. Cucchi, con ammirazione, cita lo scrittore Manganelli, che, in riferimento allo spazio architettonico, si chiese: «Come è possibile sognare in una stanza piena di angoli?» Queste opere trasformano i volumi e catturano lo sguardo in maniera diversa dalla consuetudine. In una di queste, si nota la figura di un gatto allungato, tagliato a metà, con sopra un diamante o un’oggetto sfaccettato che riflette la luce. Cucchi, sorpreso e divertito commenta: «ah tu vedi un gatto?! Chissà se è un gatto o un souvenir…».
Come se quello che vediamo fosse il riflesso di qualcosa che portiamo dentro di noi. L’immagine non è mai fissa, ma è condizionata dalla percezione e dai riferimenti dello spettatore. Queste opere riattivano il nostro modo di vedere e di ricordare. «La pittura è tutta dietro, fondamentale è quello che c’è dietro. Il soggetto non conta nulla» dice. «Prendi la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca. Non è il soggetto religioso ad essere rilevante, ma il modo in cui Piero ha usato il colore rosa. A parte che il colore non esiste, esiste solo la luce, ma è riuscito a dipingere un tipo di rosa che è già nella nostra mente».
Cucchi dipinge in modo diretto e istintivo («per disegnare devi avere la testa vuota»). Le immagini emergono come se affiorassero dal subconscio, in un esercizio rivelatorio di sé. L’artista si trasforma in una sorta di contenitore, o un filtro, da cui fluiscono le immagini che lo popolano. «Per me è sempre e solo una questione formale…Non c’è niente da spiegare, devi agire…Il mio strumento non è il linguaggio».
Attraversando tutta Manhattan in direzione nord si arriva ad Harlem, storico centro culturale afroamericano, dove si trova lo spazio espositivo di Gavin Brown e dove ritroviamo un percorso espositivo dedicato a Cucchi sino al 18 aprile. Fulcro dell’arte e del pensiero politico negli anni ’20 e ’30, il quartiere è stato trasformato con la gentrificazione. Appena entrati si avverte una presenza sussurrare: è un uroboro in ceramica, dipinto di un giallo opaco, attorcigliato su un angolo della stanza. Sullo sfondo, appese agli angoli della stanza, altre due ceramiche angolari: a destra, una scultura a forma di ali d’uccello; a sinistra, due forme circolari speculari. Entrambe sono dipinte di giallo e lungo i lati, si intravedono piccoli scarabei neri. Al centro, cinque vasi-scultura creano un nucleo denso di riferimenti. Spicca «Giar…dio» (2022), una testa punk di scheletro dipinta di giallo, che emerge da un vaso traforato bianco, rovesciato sulla sua testa.
I vasi dialogano con due piccoli dipinti dedicati a Van Gogh, incastonati in tavolette di legno bianche «come le panche dove camminano i lavoratori. Dipinte di bianco, con la calce», dice Cucchi. Sembrano richiamare il pavimento della stanza di Van Gogh ad Arles. A legare le opere in mostra è proprio quella tonalità di giallo di cui il pittore olandese era ossessionato. Cucchi parla, in tono sibillino, di quando Van Gogh e Gauguin dipingevano insieme ad Arles. Sembra voler sottolineare il colore come traccia di una memoria che si tramanda, sedimentandosi nella materia. Non è solo un omaggio visivo, ma una vera trasfusione di sensibilità. Il giallo di Van Gogh diventa per lui un legame tra corpi e tempi diversi, un filo conduttore che attraversa la materia. La memoria artistica non è mai statica, ma piuttosto un’energia che si rinnova nel contatto e nel dialogo. L’uroboro, simbolo arcaico, presente in culture e tradizioni diverse, suggerisce l’idea di un tempo circolare e si apre alla possibilità di un nuovo inizio. Uscendo, tornano in mente le parole di Cucchi: «Il corpo di un artista passa attraverso il corpo di altri artisti».

Enzo Cucchi, «Giar…dio», 2022, Gavin Brown