Bartolomeo Pietromarchi
Leggi i suoi articoliDecisamente anticonvenzionale, polemico di natura e instancabile sperimentatore, inventore d’immagini e visionario, Enzo Cucchi (Morro d’Alba, An, 1949) sceglie con cura le poche occasioni espositive che decide o che accetta di realizzare. Nel 1986 è stato il più giovane artista a cui il Guggenheim Museum di New York abbia dedicato una personale. Il 13 marzo, a distanza di anni, torna a New York con una mostra alla Vito Schnabel Gallery e un intervento site specific nello spazio di Gavin Brown.
Ho visto qui nel tuo studio a Roma un gran numero di piccoli dipinti con le ceramiche, le sculture in marmo e altre ceramiche che hai selezionato per le tue prossime mostre a New York. Ti porti tutti gli elementi per comporre la mostra direttamente sul posto, lasciandoti guidare dallo spazio e dal contesto? Come mi dicevi, saranno le opere a rivelare lo spazio della loro esposizione...
Sì, la mostra è composta da una serie di opere che ho realizzato nel tempo e la questione che mi pongo è come costruire una mostra a partire da quello che c’è. La mostra si costruirà sul posto, nessuno sa esattamente che cosa sto portando perché, altrimenti, si rischia di fare quello che succede ormai da 20 o 30 anni: le mostre non le fanno più gli artisti. Ma le mostre devono essere fatte dagli artisti, altrimenti diventano strumenti per qualcos’altro. Non è solo una questione di gallerie o galleristi, e neanche di mercato, ma di un certo «vetrinismo» che si è diffuso ovunque: musei, istituzioni, tutto. Non è una critica, è semplicemente un dato di fatto. Questo approccio ha livellato tutto. Un tempo, nei luoghi dell’arte, c’era una certa consapevolezza su che cosa significasse fare una mostra. Quando gli artisti hanno smesso di essere al centro di questo processo, la cosa è cambiata, e con il tempo si è persa una certa qualità. Poi, certo, uno può mettersi ad analizzare tutto, ma alla fine a che cosa serve? La realtà è che le cose non stanno più come le avevamo immaginate anni fa. E io, alla fine, non faccio il sociologo... faccio l’artista.
Mi sembra che tu abbia fatto qualcosa di simile nella tua personale del 1986 al Guggenheim di New York. Ho ritrovato una recensione di Ida Panicelli su «Artforum», in cui lodava il fatto che il museo ti avesse concesso di correre dei rischi, lasciandoti piena libertà decisionale. Ne era venuta fuori più che una mostra un vero evento creativo, un’unica grande installazione, rompendo con il tradizionale approccio museale.
Sì, quella era una recensione positiva ma ce ne sono state altre molto critiche, tra cui il «New York Times». Lo sanno tutti gli artisti, soprattutto chi sta dentro quel mondo. E in fondo, avevano anche ragione a farmi un culo così! Però io non avevo alcuna intenzione provocatoria, non volevo sfidare niente e nessuno. Semplicemente, ho fatto la mia mostra come la immaginavo io. Solo che già allora c’erano certi meccanismi, quelli che chiamano gli «interessi» che aiutano il museo. In pratica, volevano che esponessi opere delle collezioni private di chi finanziava il museo. Ma che senso ha? Se io faccio una mostra in un museo, la faccio a modo mio. Esattamente come abbiamo fatto anche insieme a te al MaXXI. Per loro, questa cosa era inaccettabile. E umanamente lo capisco, perché quello era (ed è) il loro mondo. Ma per me non era praticabile. Il punto è che io, ingenuamente, non conoscevo ancora certe dinamiche. Per me si trattava semplicemente di fare una mostra, come si era sempre fatto. E invece mi sono ritrovato al centro di un attacco feroce. Un piccolo giovane pidocchio che mette in crisi la spina dorsale del più grande museo del mondo... Meraviglioso, no? Però vedi, tanti artisti dell’epoca, anche amici, non hanno detto niente. Poi, vent’anni dopo, alcuni mi hanno detto: «Sai, Enzo, nessuno di noi si è mai dimenticato la tua mostra». E allora perché non me l’hanno detto prima? Perché non hanno sostenuto non tanto me, ma un’idea, un atteggiamento?
Torniamo alla mostra di oggi.
Sì ma vedi, anche oggi come allora la mostra non è che l’ho pensata a tavolino. Io non ho mai ragionato in termini di reazione o contrapposizione ideologica. Anche se all’epoca della mostra al Guggenheim c’era ancora molta ideologia nell’aria. Venivamo (poverini) dalla cosiddetta «Arte Povera», che si trascinava dietro le stesse frustrazioni. Il contesto, alla fine, è sempre culturale, va oltre tattiche, strategie o ideologie. Per me è sempre e solo una questione formale. Un artista deve sempre sostenere un altro artista, capisci? Il corpo di un artista passa attraverso il corpo di altri artisti. E tutto questo processo può essere pieno di sangue e ferocia... Ma meno male! Perché è proprio lì che avviene la selezione del vero. Ed è giusto così. È la bellezza dell’arte, la sua grandezza. È qualcosa di necessario. Senza questo, diventa un’altra cosa. Diventa spettacolo, diventa circo, diventa Disneyland. E non è un giudizio, è solo un dato di fatto.
Allora torniamo a parlare di pittura. In effetti sembra che nonostante tutti i tentativi, e oggi anche con le nuove tecnologie, non si sia mai riusciti davvero a rinunciarci. Anzi mi sembra più viva che mai…
Vedi, il problema non è solo della pittura. Come dice Eraclito le cose si trasformano in continuazione. Oggi è in un modo, domani sarà già diverso. Ma quella diversità nasce da ciò che c’era prima, si trasforma. Non è che se una cosa è fatta di un certo materiale, allora non puoi immaginare un materiale diverso. Anche quello è un altro tipo di materia, un’altra forma di espressione. Capisci cosa intendo? Le tecniche e le tecnologie sono bellissime, certo, ma sono un linguaggio diverso. Hanno una potenza decorativa incredibile, ma non hanno niente a che fare con la storia della pittura. Perché la pittura, quella vera, inizia con Giotto. Punto. Poi, certo, ci sono stati artisti tecnicamente più bravi di Giotto. Ma non avevano avuto la sua intuizione. Pensa agli affreschi di San Francesco ad Assisi: non sono solo immagini, è la Storia dentro la pittura che diventa anche storia della pittura e non semplicemente storie dipinte.
Torniamo allora a parlare delle immagini. Del senso che per te ha un’immagine. La sua ecologia nel mondo di oggi. Una volta mi hai detto che un’immagine per avere il suo statuto in quanto tale deve essere sempre autorizzata da coloro che sono per eccellenza i creatori di immagini, ovvero gli artisti...
Bella domanda. Chi può davvero autorizzare un’immagine? Guarda tutto ciò che ci circonda. Non è una questione di onnipotenza o di diritto assoluto. Il punto è un altro: chi, se non un artista, può autorizzare un’immagine? Solo l’arte può farlo. Pensa a certe immagini terribili, crude. Se tu vedi un orrore, una scena violenta, cosa fai? La mostri così com’è? Puoi far vedere una testa mozzata, per esempio? No, non puoi. Solo Caravaggio può farlo. E te lo fa vedere. Vai a Malta, guarda «La decollazione di san Giovanni Battista» e capirai. Un giornale, un media qualsiasi non può permetterselo. Non puoi sbattere davanti agli occhi della gente una testa tagliata. Non funziona così. Perché? Perché manca un’autorizzazione profonda, un livello di consapevolezza, una giustificazione che solo l’arte può dare. Puoi parlare di certe immagini, ma mostrarle è un’altra cosa. E allora? Chi decide? Su quale base? Spirituale? Morale? Se non sai che cosa significa, se non conosci quella realtà, devi almeno avere il rispetto di riconoscerlo. Devi essere prudente. Ora, immagina una figura come Caravaggio. Impressionante, no? Certo era protetto, anche perché aveva un carattere piuttosto... nervoso. Ma protetto o meno, chi autorizzava davvero le sue opere? Il committente o lui stesso? È impossibile pensare che non fosse lui. Perché quando guardi un Caravaggio, ti crolla addosso tutta la sua potenza. Ti lascia senza fiato, con quella follia, quella radicalità assoluta.
Una cosa che succede sempre meno spesso nell’arte oggi...
Purtroppo, negli ultimi anni si vedono sempre più spesso mostre che sono una sterile ripetizione, un codice chiuso in sé stesso. Ma è una cosa diversa rispetto all’ironia e all’intelligenza di un artista come de Chirico. Lui, per esempio, ha rifatto più volte le sue celebri piazze metafisiche. Ma perché? Per gioco, per ironia, magari per guadagnare qualcosa e godersi la vita, mangiarsi un piatto di pasta in via Condotti. Ma il punto è un altro: prima di tutto, de Chirico ha dipinto qualcosa che mancava, che non esisteva ancora. Ha creato immagini che hanno cambiato la storia dell’arte. E questo è ciò che conta davvero. Tutto il resto, quello che ha fatto dopo, chi se ne importa? Non è quello il punto. È troppo facile giudicare un artista sulla sua ripetizione, sul suo lavoro tardo. Il vero discorso è su ciò che ha portato di nuovo nel mondo.

Enzo Cucchi