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Finora si è ritenuto che l'«Immagine di Nostro Signore Gesù Cristo» fosse stata realizzata a Bisanzio nel XV secolo. © Jacques Mercier e Alain Mathieu

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Finora si è ritenuto che l'«Immagine di Nostro Signore Gesù Cristo» fosse stata realizzata a Bisanzio nel XV secolo. © Jacques Mercier e Alain Mathieu

Il maestro dell’icona etiope sembra tanto senese

Potrebbe essere un artista italiano arrivato in Africa nel XIV secolo l’autore del trittico in uno sperduto monastero nel Nord dell'Etiopia

Martin Bailey

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Il più antico simbolo etiope potrebbe non provenire da Bisanzio, ma essere stato dipinto direttamente in Africa orientale da un maestro senese nel XIV secolo. Quest’ipotesi rivoluzionaria è stata proposta dallo specialista francese Jacques Mercier nel suo libro, fresco di stampa, L’Art de l’Éthiopie: des origines au Siècle d’or. 330-1527 (334 pp., ill. col., Éditions Place des Victoires, Parigi 2021, € 49). Se la teoria si rivelasse corretta, si tratterebbe di uno dei primi importanti e diretti rapporti artistici tra Europa e Africa subsahariana dopo l’età romana.

L’«Immagine di Nostro Signore Gesù Cristo» è un trittico appartenente alla Chiesa del Salvatore del mondo del villaggio di Gurji, vicino al monastero di Tadbada Maryam (tabernacolo di Maria), in una zona molto isolata nelle montagne della provincia di Wello, nel Nord dell’Etiopia. Si tratta di un’icona cui viene attribuito potere taumaturgico: viene esposta una volta all’anno o occasionalmente per aiutare le donne che non riescono a concepire.

Fu vista per la prima volta dalla storica dell’arte inglese Diana Spencer nel 1970 che, per raggiungere il monastero, posto a 3.400 metri in cima a una montagna vulcanica, compì un rischioso viaggio di cinque giorni a dorso di mulo. A quanto pare, la Spencer è stata solo il terzo europeo a raggiungere il luogo in 500 anni. Da allora la rete stradale etiope è migliorata, ma Mercier ha dovuto viaggiare comunque un giorno a dorso di mulo.

Il trittico (90 centimetri di larghezza da aperto) raffigura nel pannello centrale Cristo benedicente con cinque arcangeli; nei due laterali le figure stanti degli arcangeli Michele e Gabriele. Sette arcangeli sono consueti nell’iconografia etiope, in quella europea sono spesso in numero minore. Alla base del pannello centrale, all’interno del libro, si trova un’iscrizione leggermente successiva che identifica la figura centrale nel Cristo. È scritta in ge’ez, l’antica lingua liturgica della Chiesa ortodossa etiope. Finora si era sempre ritenuto che l’icona fosse stata eseguita a Bisanzio, probabilmente a metà Quattrocento.

Mercier è invece dell’opinione che sia stata dipinta tra il 1370 e il 1398, una datazione che ne farebbe la più antica tavola dipinta sopravvissuta in Etiopia. Mercier porta inoltre l’attenzione su stretti legami dell’opera con l’arte senese. Il modellato dei visi è reso attraverso «una campitura di sottili linee incrociate su uno sfondo a colori piatti», una tecnica del tratteggio «piuttosto comune nella pittura senese del XIV secolo». Anche l’aureola punzonata indica «una pratica italiana».

Il drappeggio delle vesti degli arcangeli appare più rigido di quello degli artisti senesi, ma Mercier sottolinea che «la decorazione della veste di Cristo è eseguita con grande maestria». I cerchi che si intersecano, presenti sulla veste, sono simili ai motivi che si ritrovano sulle croci processionali etiopi di quel periodo.

Nel trittico sembrano confluire tecniche iconografiche etiopi e italiane. Mercier ne deduce che l’opera potrebbe essere stata realizzata in Etiopia, probabilmente da un orafo senese al seguito della corte degli imperatori etiopi.Ma come ci era arrivato un orafo o un artista senese in Etiopia, un viaggio impervio di più di 5mila km? Mercier ricorda il fascino del Prete Gianni, leggendario sovrano cristiano orientale, che all’epoca si credeva vivesse in Etiopia, circondato dalla più grande collezione al mondo di ori, argenti e pietre preziose, una forte attrazione per gli orafi europei.

Lo studio dell’icona da parte di Mercier ribaltale precedenti ricerche. Nel 2020 la storica dell’arte tedesca Verena Krebs ha sostenuto che si trattava di un’opera europea importata in Etiopia, realizzata sulla costa del Mar Nero a est dei Balcani o a Creta, rilevando, tuttavia, gli insoliti, per Bisanzio, «veste di Gesù» e il suo drappeggio colorato e la difficoltà a «collocare le origini spazio temporali dell’icona». Ha poi proposto una datazione del trittico, quantomeno dei pannelli laterali, alla metà del XV secolo. Di recente Mercier ha contattato Verena Krebs, che pare concordare con lui sui possibili rimandi stilistici all’Italia e sulla possibile anticipazione cronologica dell’opera. A differenza di Mercier, però, la studiosa ritiene che possa essere stata portata in Etiopia da una missione diplomatica etiope che nel 1402 visitò Venezia e conferma che «servono ulteriori ricerche».

Al di là del luogo di esecuzione, resta da chiarire come abbia fatto l’icona a raggiungere l’isola monastero di Tadbada Maryam, anche se probabilmente era stata commissionata da un imperatore etiope per un’altra chiesa. La provincia di Wello si trova in una zona del Paese coinvolta in una guerra civile tra i ribelli del Tigrè (o Tigray) nel nord e le forze governative.

L’anno scorso lo storico centro religioso di Lalibela, ad appena 80 chilometri a nord in linea d’aria (ma si tratta di un viaggio molto lungo e accidentato), è stato occupato dalle forze del Fronte popolare di liberazione del Tigrè. La Chiesa del Salvatore del mondo si trova in una posizione talmente isolata da poter sperare nella sua incolumità. Questa circostanza, unita alla ferma determinazione dei monaci di salvaguardarne gli antichi tesori, potrebbe salvare questa immagine miracolosa.
 

Finora si è ritenuto che l'«Immagine di Nostro Signore Gesù Cristo» fosse stata realizzata a Bisanzio nel XV secolo. © Jacques Mercier e Alain Mathieu

Martin Bailey, 01 febbraio 2022 | © Riproduzione riservata

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