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Kavita Singh, l'autrice del testo, qui presentato, letto in una conferenza tenuta a Firenze, a Palazzo Vecchio, il 2 settembre 2019

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Kavita Singh, l'autrice del testo, qui presentato, letto in una conferenza tenuta a Firenze, a Palazzo Vecchio, il 2 settembre 2019

Il rischio di finire in un museo

Le disavventure di imponenti manufatti architettonici indiani e dei loro calchi trasferiti al Victoria & Albert Museum e sacrificati dall’avvicendarsi delle mode e del gusto

Kavita Singh

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Nel quadro di due tematiche più ampie, la mobilità delle opere d’arte e le pratiche di acquisizione museale, seguirò il destino di quattro manufatti e ripercorrerò le vicende di come entrarono e uscirono da un museo. Gli oggetti di cui traccerò le biografie sono tutti provenienti dall’India e il museo in questione è il Victoria and Albert Museum (V&A) di Londra.

Per la storia dell’arte indiana, il V&A non è un museo come un altro. Esso contiene la più grande collezione di oggetti d’arte indiani fuori dall’India, avendo ereditato le raccolte della East India Company (Compagnia Britannica delle Indie Orientali, Ndt), e possiede molti oggetti acquisiti come trofei di guerra che hanno un forte significato storico ed emotivo per gli indiani di oggi. A questo nucleo di oggetti se ne sono aggiunte altre migliaia, che riflettono le diverse ambizioni perseguite dal museo in momenti diversi: nell’Ottocento le acquisizioni si orientavano su quelle che possiamo definire «arti decorative» per incentivare il commercio e l’industria, mentre nel Novecento si puntava sulle «belle arti» indiane.

Le opere d'arte che prenderò in considerazione sono manufatti architettonici indiani di grande scala o addirittura monumentali. Essi hanno tutti una caratteristica in comune: non possono essere ammirati in un museo ed è improbabile che possano mai ritornarvici. Eppure, nell’Ottocento, quando arrivarono al V&A (o nel South Kensington Museum, come era allora chiamato), questi elementi architettonici vennero esposti e celebrati quali importanti acquisizioni. Ma ciò che viene considerato motivo d’orgoglio in un’epoca, può diventare fonte d’imbarazzo in un’altra. Con il passare degli anni, ciascuno di questi oggetti fu vittima di quei mutamenti di priorità che fanno parte del corso del tempo. Di conseguenza, come vedremo, ciascuno venne rimosso per ragioni diverse e con modalità specifiche. E così, mentre la maggior parte degli studi sulla storia museale si concentra su ciò che è effettivamente esposto in un museo, i quattro reperti discussi nel mio intervento, spero, faranno luce su storie alternative e meno visibili.

Viaggio nel tempo
Iniziamo con un viaggio nel tempo, che ci porta a un pomeriggio di dicembre del 1870, quando un convoglio di sessanta carri trainati da buoi trasportava a stento il suo pesante carico tra le colline scoscese dell’India Centrale. Vediamo i facchini adoperarsi a sbloccare i carri dal fango, per evitare che il carico vada perso durante il percorso impervio. Si riconosce un sorvegliante indiano, il cui abbigliamento si differenzia da quello dei coolies (i lavoratori indigeni), che prova a dirigere la carovana, mentre un sahib a cavallo e con l’elmetto gli dà istruzioni.

Chi sono queste persone, che cosa stanno trasportando e dove si stanno dirigendo? L’uomo sul cavallo è il tenente Henry Hardy Cole, un giovane geniere dell’esercito indiano che da poco era stato incaricato di realizzare calchi in gesso di monumenti che potessero poi essere spediti in Gran Bretagna, per offrire al pubblico inglese un’idea delle dimensioni, della monumentalità e della complessità della scultura e dell’architettura indiane. Il primo oggetto di cui Henry Hardy Cole dovette realizzare un calco era il portale dello stupa di Sanchi.

Nei libri sull’arte indiana, che proprio in quel periodo iniziavano a essere scritti, questo monumento buddhista del II secolo viene celebrato come uno dei più antichi monumenti in pietra conservati in India; è proprio Sanchi il luogo che Cole e la sua squadra stavano cercando, a fatica, di raggiungere. Subito prima dell’episodio raffigurato nel dipinto, Cole aveva trascorso cinque mesi a Londra, dove aveva imparato le tecniche di realizzazione di calchi in gesso nei laboratori del V&A. Era quindi ritornato a Calcutta con 28 tonnellate di materiali e attrezzature necessari per la produzione dei calchi.

Il tutto trasportato fino a Sanchi in treno, su carri trainati dai buoi e, infine, a piedi attraverso la giungla. La squadra rimase sul posto per sei settimane. In un altro dipinto possiamo vedere il suo accampamento e la squadra al lavoro. Cole aveva scelto di realizzare i calchi utilizzando gelatina che dava un rilievo molto netto. Ma con il passare dei giorni e l’arrivo dell’estate le temperature aumentavano e presto sarebbe stato troppo caldo perché i processi di lavorazione andassero buon fine. Era un lavoro molto delicato e Cole non poteva permettersi errori.

5mila sterline in calchi
Cole fu quindi doppiamente soddisfatto quando l’impresa venne portata a compimento nei termini prefissati: il calco del portale venne eseguito in 112 parti, poi spedite a Londra. Non saranno mai esposte, ma serviranno da matrice per copie successive. Una di queste copie fu esposta a Londra per la prima volta all’Esposizione Internazionale del 1871 per poi venire spostata al South Kensington Museum. Quattro ulteriori copie vennero inviate a Edimburgo, Dublino, Parigi (forse donata a Bruxelles) e Berlino. Ciascuna di queste, una volta assemblata, era un facsimile perfetto, alto più di 10 metri, del portale orientale dello stupa di Sanchi.

L’esecuzione di questi calchi richiese uno sforzo enorme, grande abilità, molto tempo e ingenti risorse finanziarie. Le stime iniziali di Cole per il progetto superavano le 5mila sterline, una cifra astronomica per l’epoca, e il denaro necessario per realizzare i calchi fu deliberato in un periodo in cui il governo coloniale era riluttante a spendere soldi per i monumenti, quelli veri, in India. Allora, quali furono le motivazioni che portarono invece a investire tanto denaro per farne delle copie in gesso? La realizzazione dei calchi di Sanchi è espressione dell’entusiasmo dell’epoca per le gipsoteche (gallerie di calchi in gesso), le cui vestigia sono tuttora visibili nelle impressionanti sale a esse dedicate nel V&A e in numerosi altri musei europei.

Oggi l’opera originale viene feticizzata, ma nell’Ottocento diversi musei aspiravano a essere vere enciclopedie del meglio dell’arte, e, in mancanza degli originali dei più grandi capolavori, fedeli riproduzioni erano considerate sostituti perfettamente validi.

Come la fotografia era una moderna tecnologia della riproduzione che consentiva di documentare visivamente con un’accuratezza in precedenza impossibile, così alcune di queste tecniche di riproduzione tridimensionale parevano fornire copie impeccabili grazie alla «magia» scientifica e sembravano anche immuni dall’approssimazione della mano umana; per far fronte alla domanda elevata, nacque una vera industria dedicata alla produzione di calchi.

Come in tanti altri aspetti, il V&A, o meglio il suo predecessore, il South Kensington Museum, era un pioniere nell’adozione di nuove tecnologie di riproduzione. Poiché il museo voleva essere un’istituzione dedita all’insegnamento, e non un tempio dell’arte, non esitava a spendere le sue risorse per l’acquisizione di un gran numero di calchi in gesso, piuttosto che concentrare il suo potere d’acquisto nel comprare poche opere d’arte originali.

L’impeto collezionistico nei confronti dei calchi veniva direttamente dal primo direttore del museo, Sir Henry Cole, una figura molto influente nel mondo dell’arte dell’epoca. Era così convinto dell’utilità dei calchi che per l’Esposizione Internazionale di Parigi del 1867 riempì la sezione britannica con un’ampia selezione di riproduzioni di opere d’arte italiane, tedesche, francesi, svedesi, moresche, egiziane e indiane, così da dimostrare come, da allora in poi, qualunque nazione potesse avere la perfetta collezione museale senza immischiarsi nella proprietà altrui.

A Parigi, Cole riuscì a convincere i capi di quindici nazioni europee a firmare un accordo per favorire la condivisione delle riproduzioni dei capolavori e dei monumenti nei loro territori. I calchi del portale di Sanchi vennero commissionati in questo contesto. Forse non era una coincidenza che un’istituzione capitanata da Sir Henry Cole affidasse i lavori a Henry Hardy Cole, visto che costui era figlio del vecchio Sir Henry. Tuttavia Henry Hardy Cole non era un pelandrone che approfittava dell’appoggio del padre: era infatti bravissimo nel suo lavoro, che eseguiva con grande impegno.

Finiti quelli di Sanchi, si offrì per la realizzazione di calchi di altri monumenti indiani per il museo di South Kensington. I calchi di monumenti indiani mandati a Londra dal giovane Cole erano così numerosi che Cole senior era in grado di progettarvi intorno un’intera galleria. Nel 1874 aprirono nel museo di South Kensington le sale dedicate all’architettura (Architecture Courts) per esporre la collezione di calchi del museo. Le Architecture Courts consistevano in due grandi sale: una per i calchi dell’architettura Occidentale, dominata dalla Colonna Traiana, l’altra per l’architettura orientale, dove troneggiava il portale di Sanchi. A fianco del portale erano appesi tre dipinti, commissionati da Henry Hardy Cole, che tracciavano la storia della produzione dei calchi. Questa porzione della galleria, dunque, non serviva solo a celebrare i monumenti indiani, ma fungeva anche da tributo al lavoro di Henry Hardy Cole nel realizzarli.

Alcuni anni dopo l’arrivo del calco di Sanchi a Londra, il V&A ereditò il museo della East India Company. Le collezioni indiane divennero così talmente grandi che il museo dovette affittare un ulteriore edificio dall’altra parte della strada per ospitarne tutti gli oggetti. Tra questi vi erano anche i calchi in gesso, spostati dalle «Courts» della sede principale. In venti sale del nuovo edificio il museo si occupò dell’allestimento degli oggetti indiani: sculture, tessuti, dipinti, armi e armature, arti decorative e, per documentare l’architettura, sia calchi sia strutture originali. L’unica fotografia di cui dispongo che mostri il portale di Sanchi in quella sede fu scattata in un momento poco felice, ossia durante un incendio nella galleria e in essa si vedono i pompieri estinguere il fuoco con il portale sullo sfondo.

Ma in questa casa di meraviglie esotiche, il portale di Sanchi divenne un tale simbolo delle strane e splendide costruzioni orientali che venne evocato persino in mostre in cui non era presente. Così, quando l’impresario Imre Kiralfy mise in scena la sua spettacolare, e decisamente commerciale, esposizione dell’Impero Indiano nel 1895, la pubblicità dell’evento consisteva in un assortimento di elefanti che barriscono passando attraverso il portale di Sanchi, in un’immagine che voleva essere la metonimia del passato e del presente esotici dell’India.
Mentre i calchi alimentavano l’immaginario collettivo a Londra, finirono per avere un impatto profondo anche sui loro originali rimasti in India.

Siccome i calchi potevano viaggiare, gli originali rimasero in situ; questo garantì che il destino di Sanchi diventasse molto diverso da quello di altri siti simili, che venivano scoperti, celebrati e studiati in epoca coloniale. Se guardiamo, per esempio, ai siti di Bharhut, Sanchi e Amaravati, tutti stupa buddhisti del II secolo, con notevoli apparati scultorei, vediamo che oggi non rimane quasi nulla dei siti di Bharhut e Amaravati, mentre le rovine di Sanchi sono rimaste al loro posto, consentendone il successivo restauro. Henry Hardy Cole aveva già intuito questo andamento quando esclamò: «Ove ci siano i mezzi per creare dei facsimile di poco differenti dagli originali [...]» è «una politica suicida e indifendibile quella di permettere che il Paese venga depredato delle sue originali opere d’arte antica».

Per Cole era chiaro che non vi era più alcun bisogno di spogliare un sito storico per arricchire le collezioni di un museo. La creazione di calchi, dunque, doveva avere un impatto profondo sulle pratiche collezionistiche, così come per quelle archeologiche e di conservazione. Al momento della sua creazione, un calco come quello del portale di Sanchi era una meraviglia quasi quanto l’opera stessa, testimoniando non solo le qualità di un monumento indiano del II secolo, ma anche l’abilità tecnica e gli sforzi eroici di un gruppo di inglesi. Oggi, calchi come quelli del V&A si trovano in varie collezioni e hanno ormai un’età che li rende oggetti da valorizzare come manufatti storici dell’età vittoriana. Ma fra il passato remoto e quello più prossimo di questi calchi, la storia della loro ricezione non è stata sempre positiva.

Alla metà del XX secolo ci fu un ri-orientamento degli atteggiamenti delle istituzioni: le riproduzioni divennero motivo d’imbarazzo, oggetti destinati al bookshop e non agli spazi espositivi.

Quando nel 1955 finì il contratto d’affitto per l’edificio che ospitava la collezione indiana e il museo venne informato della sua imminente demolizione, gli oggetti dovettero essere trasferiti all’interno della struttura dello stesso V&A e venne loro dedicato uno spazio notevolmente più piccolo. Il nuovo curatore della sezione indiana era W.G. Archer, un esteta puro, che riteneva che il nucleo di opere indiane di alta qualità fosse «oscurato da una montagna di spazzatura». Per Archer il problema di spazio presentava l’opportunità di epurare le collezioni indiane del V&A da ciò che lui considerava fondamentalmente immondizia. Oggetti etnografici furono donati o venduti a basso costo ad altri musei, copie e oggetti di recente fattura furono semplicemente buttati via.

Archer tenne in poca considerazione il calco del portale di Sanchi, enorme e costoso da trasportare o tenere in deposito. Secondo il curatore, dato che il costo di cinque calchi era stato di 5mila sterline, il calco del V&A era costato meno di mille sterline; smontarlo e trasferirlo in un deposito sarebbe quindi costato di più del valore del calco stesso. Registrando questo ragionamento nei documenti d’archivio, Archer diede un segnale forte, e quando le collezioni indiane furono portate via dall’edificio destinato alla demolizione, il calco del portale di Sanchi venne lasciato dov’era e venne ridotto in macerie insieme al palazzo in cui si trovava.

Il portico imballato e spedito a Londra
Abbiamo visto come la realizzazione del calco del portale di Sanchi fece sì che lo stupa rimanesse in loco e fosse restaurato in situ. Ma qualche anno dopo non ci si fece scrupoli nel trasportare a Londra il prossimo oggetto di cui vorrei discutere. Mi riferisco a un portico che, in realtà, proviene dal più celebre complesso di edifici in India, decantato da quasi tutti gli ufficiali inglesi delle truppe coloniali. Fu l’unico insieme di monumenti ad attirare un interesse tale che la East India Company, notoriamente attenta a ogni scellino, ne finanziò il restauro spendendo più di 600mila rupie. I monumenti privilegiati erano ovviamente il Taj Mahal e gli altri edifici imperiali dei Moghul ad Agra e dintorni.

Il portico proviene dagli opulenti appartamenti fatti realizzare dal sovrano Shah Jahan all’interno alla fortezza di Agra, precisamente dall’Hammam come riferirò più avanti, risale al 1628-58 ed è in marmo bianco con intarsi lapidei policromi (l’altezza delle colonne è di 2,7 m). Com’è stato possibile che intere sue parti venissero imballate e spedite Oltreoceano quando le autorità britanniche erano disposte a investire così tante risorse nel restauro e nella conservazione dei monumenti di Agra?

Nonostante la Raj Company fosse stata generosa nei confronti di queste opere, la loro storia è tuttavia complessa poiché interventi di grande cura si alternavano a fasi di spoliazione e abusi. È celebre il caso di Francis Rawdon-Hastings, governatore generale dell’India che visitò e ispezionò la fortezza di Agra nel 1815. In quell’occasione notò che lo Shahi Hammam, ovvero l’edificio delle terme reali, era «rivestito e pavimentato con intarsi marmorei allo stesso modo del Taj». Vi è una raffigurazione dell’Hammam come doveva forse essere all’epoca di Hastings realizzata da un artista che lo accompagnava durante i suoi viaggi.

Constatando che una delle cupole dell’edificio aveva delle crepe, Hastings dichiarò che era «impossibile che venisse riparata senza una spesa che non può essere accordata» (una tripla negazione, che equivale a dire: non ce l’ho, non pagherò). Prevedendo il crollo della cupola e la distruzione di tutto ciò che si trovava sotto di essa (ed essendo, come dichiarò lui stesso, «così ansioso di salvare un’opera d’arte di una tale delicatezza»), Hastings diede ordine di staccare gli intarsi in marmo dai pavimenti e dalle pareti, e di rimuovere terme e fontane, affinché il tutto venisse spedito a Calcutta dove risiedeva. Mentre lasciava Agra, Hastings scorse un enorme cannone del periodo Akbar, che si trovava sulle rive del fiume Yamuna.

Questa bombarda, chiamata Dhun-Dhwani, è ritenuta essere il più grande cannone fatto fare dai Moghul, e Hastings considerò la possibilità di trasferire anch’esso a Calcutta. Tuttavia, al contrario delle terme imperiali, alle quali pochissimi avevano accesso e della cui spoliazione, di conseguenza, pochissimi sarebbero venuti a conoscenza, il cannone era un oggetto pubblico e i consiglieri locali del governatore lo avvertirono delle possibili reazioni che una tale scelta avrebbe provocato.

La bombarda venne lasciata al suo posto, il rivestimento marmoreo dell’Hammam venne invece portato via, ma non è chiaro dove andò a finire. Alcuni pezzi furono visti accatastati nella fortezza nel 1834, durante una visita al Taj Mahal del successivo governatore, Lord Bentinck. Uomo economicamente molto prudente, Bentinck ordinò che il marmo venisse battuto all’asta per finanziare il ponte che il Governo stava edificando sul fiume Yamuna. Per questa giusta causa raccolse fondi anche facendo fondere l’enorme cannone sopra citato e vendendone il materiale a peso.

Secondo il biografo di Bentinck, era questa piccola asta di «marmacci dalle terme ormai in rovina della fortezza di Agra» che portò alla famosa bufala legata alla reputazione del governatore, ovvero che egli volesse mettere all’asta l’intero Taj Mahal al prezzo dei suoi marmi.

È questa una falsità totale? L’asta del Taj voluta da Bentinck viene menzionata da alcuni viaggiatori inglesi in India suoi contemporanei. E temo che il biografo di Bentinck dovrà confrontarsi con una recente intervista fatta a un residente di Mathura, presso Agra, che sostiene che il suo bisavolo, il ricchissimo banchiere dell’Ottocento Rao Bahadur Lakhmi Chand, fece l’offerta vincente per il Taj. Nonostante Lakhmi Chand avesse comprato il Taj, non gli venne permesso di appropriarsene perché la notizia della vendita causò troppa agitazione nella comunità musulmana di Agra e le autorità inglesi, temendo una rissa fra induisti e musulmani, ordinarono a Bentinck di annullare l’asta.

Forse non sapremo mai che cosa avvenne realmente ad Agra in quegli anni, che cosa venne portato a Calcutta da Hastings, o che cosa venne messo all’asta in loco da Bentinck; tuttavia, sembra che girasse una quantità notevole di marmo in quel momento. Quarantacinque anni dopo, quando il governatore delle province nordoccidentali dell’India inglese, Sir Alfred Lyall, visitò la fortezza di Agra, inviò a Londra cinque colonne con relativi capitelli e architravi. Lì vennero esposte all’enorme Colonial and Indian Exhibition del 1886.

In mostra il testo riferito al portico offriva una spiegazione ingegnosa sul perché fosse stato possibile portarlo via dalla collocazione originale: sarebbe crollato quando la fortezza di Agra fu attaccata dal sovrano indiano Surajmal nel XVIII secolo; in questo modo ogni responsabilità di danno o spoliazione veniva trasferita su di lui. Da allora, recitava l’ingannevole testo, il portico era rimasto «sepolto» nella fortezza e Lyall lo «aveva scoperto solo di recente». Il testo presentava Lyall come esploratore o archeologo, il salvatore piuttosto che il depredatore del portico.

La storica dell’architettura Ebba Koch ha condotto un notevole lavoro investigativo sul portico cui ha dedicato un brillante saggio. Prima di tutto la studiosa ha rintracciato le porzioni disperse: oltre a quanto conservato nel V&A oggi, ci sono pezzi che sono ancora sparsi all’interno della fortezza d’Agra, altri nel museo di Taj, altri ancora nel museo della vicina città di Lucknow, e poi ci sono delle colonne reinserite nel portico di una foresteria governativa ad Agra.

Successivamente la Koch ha identificato la collocazione originaria del portico all’interno della fortezza e, in questo modo, ha risolto l’enigma di una parete stranamente spoglia e brutta nei pressi di una terrazza marmorea davanti alla camera delle udienze della fortezza d’Agra. Si trattava della parete dell’Hammam, l’edificio da cui Hastings aveva ordinato la rimozione del paramento marmoreo, operazione che non solo andò a intaccare l’interno dell’edificio, ma comportò anche lo smantellamento di una loggia che stava al suo esterno. Dai dipinti raffiguranti la fortezza di Agra realizzati prima del passaggio di Bentinck e Hastings possiamo forse intuire l’aspetto originario della loggia.

Vi è poi una stampa del 1876 che mostra la stessa terrazza, in primo piano, le mura dell’Hammam cadenti e laddove doveva esserci il portico, una baracca, forse costruita per proteggere la catasta di marmi staccati dall’edificio: forse i marmi fatti rimuovere nel 1813 da Hastings giacevano ancora nella fortezza nel 1876 o forse la baracca proteggeva le colonne trovate da Lyall. Dopo che il portico fu esposto alla mostra londinese del 1886, Lyall lo donò al South Kensington Museum che lo espose nelle ampie gallerie delle collezioni indiane e orientali.

Queste gallerie, come ho già detto, non erano nell’edificio principale del V&A, ma si trovavano presso l’altra sede, dall’altra parte della strada rispetto al museo; lì occupavano due piani di un’ala lunga e stretta. Alle opere d’arte indiana erano dedicate dieci gallerie per cui c’era lo spazio per esporre un gran numero di reperti. Quando il V&A nel 1955 perse la possibilità di rinnovare l’affitto di quel palazzo, la sezione indiana dovette essere allestita nell’edificio principale e le fu destinata la galleria in cui si trova ancora oggi.

Nel nuovo allestimento non c’era più spazio sufficiente per mostrare gli oggetti di grandi dimensioni: ho già raccontato che cosa comportò per il portale di Sanchi questo trasferimento. A differenza del calco in gesso del portale, il portico di Agra non venne distrutto (Archer lo ritenne di valore perché era un originale del XVII secolo), però venne messo in deposito.

Negli anni Ottanta del secolo scorso ci fu un progetto per riallestire e rilanciare le collezioni indiane del V&A e il curatore di allora spinse perché questi importanti oggetti tornassero a essere esposti. L’architetto cui era stato affidato l’allestimento della galleria non volle però esporre il colonnato poiché, essendo troppo bello, avrebbe distratto i visitatori distogliendo la loro attenzione dal colpo d’occhio sulla presentazione complessiva delle opere. Ne consegue che ancora oggi, all’ingresso della sezione Moghul nella Sezione indiana del V&A, passiamo attraverso un altro portico, più semplice, mentre quello di Agra rimane nei depositi.

Quando il portico perdette l’occasione di essere riesposto, venne spostato dallo «storage» al «deep storage», termine tecnico che sta a indicare un deposito in cui gli oggetti sono al sicuro, ma da cui è improbabile che escano. Le strutture di «deep storage» si trovano spesso a una certa distanza dalla città, dove i costi sono inferiori, e sono spesso sotterranee, cosa che offre un migliore controllo microclimatico. Per fare un esempio lo Science Museum utilizza delle ex miniere per i suoi depositi.

Per il portico di Agra «deep storage» significò spostarsi da Londra a un ex bunker militare a Salisbury, il cui accesso è regolato tramite permessi speciali e comporta un viaggio di due ore da Londra e poi un trenino che porta nei meandri della terra. Lì il portico è conservato in condizioni di costante controllo della temperatura e dell’umidità, un destino ben diverso rispetto agli altri monumenti rimasti in situ ad Agra, esposti agli agenti atmosferici inquinanti, ingialliti ed erosi da escrementi d’insetti e piogge acide. È meglio lasciare i monumenti a un destino d’inevitabile degrado o conservare porzioni di essi in condizioni ottimali, ma senza che nessuno possa ammirarli?

Il portale sepolto vivo tra i Cartoni di Raffaello
Passiamo ora al terzo dei miei quattro portali, che a breve, quasi certamente, come il portico di Agra non sarà più fruibile dal pubblico londinese. Si tratta del portale di Gwalior, esposto per la prima volta nel 1886 a Londra, insieme al portico di Agra, in occasione della Colonial and Indian Exhibition. Ergendosi sugli spettatori con un’altezza di più di 60 piedi (oltre 18 metri, Ndr) e con un peso di 75 tonnellate, il portale catturava l’attenzione anzitutto per le sue dimensioni, benché la raffinatezza del decoro scolpito fosse altrettanto notevole. Le strane sorti del portale di Gwalior sono state tracciate nel brillante saggio di Deborah Swallow, di cui quanto segue non può che essere una parafrasi.

Come ricorda l’autrice, il nostro portale non era un manufatto antico, a differenza del portico di Agra, bensì di più recente realizzazione, dovendo le proprie origini all’incontro degli inglesi Casper Purdon Clarke e J. B. Keith occorso nel 1881 a Gwailor, nell’India Centrale. Purdon Clarke era un architetto, ma la sua grande attitudine scenografica lo aveva portato nel campo dell’esposizione museale, dove poté sperimentare soluzioni d’allestimento sempre più plateali.

Progettò tra il resto il padiglione per esporre a Parigi nel 1878 la collezione indiana del principe di Galles ed ebbe un tale successo, che fu nominato commissario speciale per l’arte indiana in vista di future esibizioni. Nei primi anni Ottanta dell’Ottocento fu inviato in India dotato di 5mila sterline con cui acquistare opere per incrementare la collezione indiana del South Kensington Museum. I registri del museo ci informano che Clarke spedì trecento casse cariche di più di 3.400 oggetti.

Clarke era ovviamente nella condizione di scegliere qualunque tipo di manufatto ritenesse più idoneo. Quando visitò Gwalior, sito di splendidi monumenti, fece la conoscenza del maggiore J. B. Keith, curatore dei monumenti dell’India centrale, il quale, nota la Swallow, «non gli avrebbe mai permesso d’impadronirsi di alcun resto architettonico (originale)». Keith spiegò a Clarke come a Gwalior risiedessero talentuose maestranze della pietra in grado di riprodurre qualunque monumento antico: fu così che Clarke commissionò alcune repliche di edifici storici. In aggiunta a quanto commissionato da Clarke, di propria iniziativa Keith chiese al maharaja di Gwalior di finanziare la realizzazione di un grande portale che potesse viaggiare ed essere esposto per promuovere le grandi abilità dei locali maestri della pietra, in quel momento bisognosi di lavoro.

Il portale fu esposto per la prima volta all’Esposizione Internazionale di Calcutta del 1883-84 per poi essere offerto in dono dal maharaja al londinese South Kensington Museum. Deborah Swallow riporta lo sbigottimento dei conservatori del museo che al momento dell’apertura delle duecento casse con le parti del portale smontato si resero conto delle dimensioni dell’opera. Nel museo non c’era lo spazio per ospitare un manufatto del genere per cui il portale fu utilizzato come ingresso della Sezione indiana dell’Esposizione del 1886, nella quale era esposto anche il portico di Agra.

Per il maggiore Keith e altri estimatori dell’artigianato indiano la speranza era che quella dimostrazione di competenze avrebbe attratto investimenti a vantaggio dei talentuosi lapicidi di Gwalior. È comprensibile allora il disappunto di Keith quando, al termine dell’Esposizione, il portale di Gwalior fu riposto nei depositi a South Kensington. Trovandosi in congedo a Londra, Keith tentò varie petizioni e pressioni nei confronti del museo, indirizzò lettere alle autorità e pubblicò articoli, ma senza esito.

In seguito, quando nel 1899 il museo annunciò l’imminente costruzione di un’ala aggiuntiva, Keith si rese conto dell’occasione che gli si prospettava. Raddoppiò gli sforzi per assicurare che il portale trovasse un posto all’interno dell’ampliamento museale, insinuando che trascurare quel monumento avrebbe comportato un incidente diplomatico con il maharaja di Gwalior.

In privato, i conservatori del museo apostrofavano il colossale portale come «that beastly thing», ma furono infine spinti a trovargli spazio all’interno di una delle nuove grandi sale destinate all’arte orientale. Nemmeno questa galleria però, pur piuttosto ampia, era abbastanza grande per ospitare l’intero portale per cui il coronamento dovette rimanere in deposito. Alla fine, per ironia della sorte, l’insistenza di Keith si ripercosse proprio sul portale, poiché le collezioni orientali e indiane non vennero mai esposte in quella galleria.

Per alcuni decenni il portale presiedette a un allestimento di oggetti islamici, che negli anni Cinquanta del Novecento, secondo un nuovo piano di riorganizzazione del museo, fu sostituito con i Cartoni di Raffaello. Tuttavia l’estetica del portale di Gwalior cozzava con le opere raffaellesche per cui fu deciso di coprire il portale con una finta parete. Ancora oggi una parte aggettante su una delle pareti della Sala dei Cartoni di Raffaello è tutto ciò che ricorda come lì dietro si trovi, murato, la gran parte del portale di Gwalior (il coronamento è conservato smembrato nei depositi).

Il destino del portale di Gwalior mi ricorda sempre la vicenda della sfortunata cortigiana Anarkali, sepolta viva per aver osato amare il principe ereditario del regno. Ora pensare al portale di Gwalior come a una fanciulla in pericolo è sentimentalismo, ma ciò che è avvenuto al portale non è il semplice destino di un solo manufatto. Neppure le «sparizioni» di questi grandi manufatti indiani dalla vista dei visitatori sono fatti accidentali e contingenti relativi alla specifica storia di un museo in particolare. Si tratta piuttosto dei sintomi di un’ambiguità più profonda in Gran Bretagna circa l’arte indiana, le collezioni indiane e infine la memoria dell’Impero d’India dopo la sua capitolazione.

Durante il periodo coloniale i manufatti di arte indiana vennero avidamente acquisiti ma, non appena cambiarono i tempi, gli spazi ad essi dedicati furono ridotti e l’interesse collettivo per quelle terre lontane che la Gran Bretagna ormai non controllava più calò vistosamente. Anche le straordinarie collezioni di arte indiana del V&A furono relegate in collocazioni marginali all’interno del museo. Si passò dall’imbarazzo della scelta all’imbarazzo per l’abbondanza di manufatti.

Che cosa fare di tutta quella roba? Non c’era posto per esporre quegli oggetti ormai passati di moda e i musei si ritrovavano il fardello di badare a oggetti di cui non avevano più alcun bisogno. In tutto ciò i manufatti architettonici di grandi dimensioni, un tempo l’orgoglio del museo, erano diventati il problema del museo. E di questi ve n’erano molti: calchi in gesso, colonnati, portali e ancora intere facciate di case in legno e in pietra, copie ottocentesche di piastrellature e intagli lapidei. Per tutti questi oggetti il problema fu risolto allo stesso modo che per il portale di Sanchi.

I documenti d’archivio del V&A registrano riunioni su riunioni nelle quali questi oggetti venivano esaminati e giudicati di nessun valore, ora perché copie recenti di opere più antiche, ora perché dispendiosi da smantellare e immagazzinare, ora perché mere arti decorative. Dunque dovevano essere distrutti. La facciata in pietra della casa di Bulandshahr: da distruggere. La piastrellatura di Multan: da distruggere. I rilievi in pietra di Gwalior: da distruggere. Quando fu tempo di sgomberare la vecchia ala, tutte queste cose furono semplicemente abbandonate assieme al portale di Sanchi e, quando l’edificio fu demolito, le opere allestite furono ridotte anch’esse in macerie.

Le responsabilità
Secondo la memoria ufficiale del V&A la responsabilità di questa distruzione su larga scala di oggetti indiani ricade su W.G. Archer, il nuovo curatore della sezione indiana di cui abbiamo già parlato.

Ma se ci volgiamo indietro a questo momento di metà secolo e rimpiangiamo la perdita delle grate in pietra e delle facciate magnificamente scolpite, pensiamo al lavoro di tutti gli scultori di Gwalior, degli scalpellini e degli artigiani che accompagnarono Henry Hardy Cole nella sua spedizione alla volta di Sanchi, tutto andato in malora, non possiamo incolpare della perdita una sola persona.

Fu certo un caso che la sezione indiana dovesse perdere la sua estesa galleria nel momento in cui il suo nuovo curatore era un purista che riconosceva un valore solo agli originali. Ma la decisione di sbarazzarsi di questo materiale fu presa da una commissione, e non senza il consenso delle massime autorità del museo.

Un poetico ritorno a casa
Concludo con il racconto di un viaggio, di un arrivo e di una partenza, di un’andata e di un ritorno. Dopo le mie storie di oggetti demoliti, nascosti, murati, spero che questa breve e ultima vicenda segni un lieto fine per la nostra presentazione. Fra i 3.400 manufatti che Caspar Purdon Clarke mandò in patria dall’India c’era la facciata di una casa del XVII secolo proveniente da Ahmedabad, che occupava un’intera parete dell’atrio della Sezione indiana.

Quando lo spazio dedicato alla sezione fu ridotto, nel 1955, quali possibilità aveva una cosa di tale grandezza di venire nuovamente esposta? Sotto W.G. Archer, nella Sezione indiana, era impiegato John Irwin, un esperto di tessili che intratteneva una stretta relazione con la facoltosa famiglia dei Sarabhai, industriali originari di Ahmedabad. I Sarabhai erano proprietari di importanti fabbriche tessili, ma al contempo collezionavano tessuti antichi e stavano dando forma a ciò che sarebbe diventato il più raffinato museo tessile d’India e, di certo, una delle migliori istituzioni di settore nel mondo: il Calico Museum of Textiles di Ahmedabad.

Nel 1959 John Irwin fece sì che il V&A vendesse ai Sarabhai, al prezzo di 40 sterline, questo fronte di casa acquistato nel 1883 per 200 sterline. Smontato e riassemblato in loco si trova ancora oggi parte nel cortile del Calico Museum. C’è della poesia nelle vicissitudini della facciata di Ahmedabad: un’architettura pensata per essere una casa nel XVII secolo, impacchettata e portata a Londra nel XIX secolo, poi lì divenuta inutile ed esclusa alla vista del pubblico del museo nel XX secolo, infine tornata indietro ad Ahmedabad per essere nuovamente esposta in un museo. Emergono aspetti eticamente problematici, e nondimeno vi è il senso di soddisfazione per un manufatto tornato a casa.

Benché queste storie siano interessanti di per sé, risultano utili solo se servono a guardare in prospettiva l’attualità e se ci aiutano a pensare al futuro, a intendere, tra le altre cose, come gli oggetti esposti nei musei possono essere minacciati non solo da forze esterne, ma anche da forze interne al museo stesso. L’istituzione dedicata alla loro conservazione può anche esprimere delle riserve sugli oggetti delle proprie collezioni e permettere che alcuni vengano scartati, eliminati o addirittura distrutti. Abbiamo anche notato come, col mutare del gusto, ci fosse un contraddizione tra l’eliminazione in grande scala di manufatti indiani e la conservazione in collocazioni di primo piano all’interno del museo di riproduzioni di manufatti europei.

Oggi c’è una preoccupazione crescente per le minacce rivolte in tutto il mondo al patrimonio monumentale. Esistono iniziative e studi per capire come agenzie e istituzioni internazionali possano intervenire per conservare o ricostruire alcuni siti. Ma date le vicende storiche appena riportate, come dovrebbero essere letti articoli come quello di Robert Fisk («Does Aleppo prove that we westeners should keep the world’s antiquities?», «The Independent» del primo dicembre 2016), nel quale si argomenta che la campagna ottocentesca di acquisizioni di oggetti orientali da parte dei musei abbia salvato per il mondo parte di questo patrimonio e si vuole dimostrare come la migliore condizione possibile per questi oggetti sia la loro conservazione in questi musei?

Dovremmo chiederci se non vi siano altre vicende nascoste di musei e delle loro collezioni, altre storie che hanno bisogno di essere raccontate. Dovremmo riconoscere che il museo non è sempre un luogo sicuro e accogliente in egual misura nei confronti di tutte le opere d’arte che vi cercano rifugio.

Questo è il testo della conferenza «Indian Monuments in Motion, In and Out of the Museum» (Monumenti indiani in movimento, dentro e fuori dal museo) tenuta dalla storica dell’arte Kavita Singh della Jawaharlal Nehru University di New Delhi il 2 settembre nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio in occasione del XXXV Congresso Mondiale del Comité International d’Histoire de l’Art (Ciha) «MOTION: Transformation», a cura del Ciha Italia e del Kunsthistorisches Institut di Firenze e del Max-Planck-Institut. Traduzione di Maximillian Hernandez, Davide Ferri, Irene Gilodi. Revisione: Ef Copyright Kavita Singh e Kunsthistorisches Institut in Florenz - Max-Planck-Institut
 

Kavita Singh, l'autrice del testo, qui presentato, letto in una conferenza tenuta a Firenze, a Palazzo Vecchio, il 2 settembre 2019

Kavita Singh, 21 ottobre 2019 | © Riproduzione riservata

Il rischio di finire in un museo | Kavita Singh

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