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Patrizia Sandretto Re Rebaudengo Photo Riccardo Ghilardi

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Patrizia Sandretto Re Rebaudengo Photo Riccardo Ghilardi

In Fabbrica con Patrizia

Il sodalizio fra la grammatica degli artisti, l’innovazione e la cultura d’impresa nel racconto di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, membro del Gruppo Tecnico Cultura di Confindustria e promotrice del libro Il Segno dell’Arte nelle Imprese, cui ArtVerona dedica un talk sabato 12 ottobre alle 18

Nicola Zanella

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In occasione di ArtVerona, la fiera italiana che maggiormente ha sposato il binomio arte e impresa, non può mancare un’intervista a colei che si è fatta paladina di questo sodalizio: Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Membro del Gruppo Tecnico Cultura di Confindustria, ha partecipato alla realizzazione del libro sulle Corporate Collection italiane Il Segno dell’Arte nelle Imprese (Marsilio Arte). Il libro sarà oggetto di un talk durante la fiera scaligera, sabato 12 alle 18.

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, come membro del Gruppo Tecnico Cultura di Confindustria avete fortemente voluto il libro Il Segno dell’Arte nelle Imprese. Perché ultimamente è un argomento così cogente e sempre più attenzionato.

Credo che l’attenzione derivi dal fatto che l’alleanza tra cultura d’impresa e culture dell’arte stia vivendo oggi un processo di trasformazione. Il volume, curato da Ilaria Bonacossa, ci rivela una geografia delle collezioni corporate italiane, documentando, in molti casi, il passaggio da un collezionismo tradizionale a strategie che fanno leva su un’idea di arte come ricerca, patrimonio di idee, di relazioni e scambi possibili tra azienda, artisti, artiste, comunità professionale, territorio.

Ci si focalizza molto sui benefici che l’arte può avere nei processi di innovazione delle aziende, ma allo stesso tempo, da collezionista, pensa che la collaborazione tra i due mondi possa contribuire a rinnovare la grammatica degli artisti? Penso ad esempio ai linguaggi tecnologici.

Ciò che da collezionista cerco in un artista è la libertà di pensiero e la capacità di individuare i linguaggi più precisi per dar forma ai propri temi di ricerca. L’arte di oggi attinge ai linguaggi tecnologici, restituendoceli in piena autonomia e spesso in modo inatteso. Credo che i benefici del rapporto tra aziende innovative e artisti si giochi piuttosto sul terreno della committenza: di un’opera site-specific, di un workshop per i dipendenti, di programmi aperti ai pubblici esterni.

Ci sono opere nate come commissione corporate che l’hanno particolarmente colpita e che secondo lei sono esemplari di questo discorso?

«Il personale», l’installazione luminosa di Claire Fontaine, vincitrice della XXI edizione del Premio Ermanno Casoli, pensata per l’headquarter di Elica a Fabriano e nata dal workshop Lavoro femminile visibile e invisibile, che ha coinvolto 30 donne con ruoli manageriali all’interno dell’azienda. La straordinaria installazione sospesa, realizzata da Pae White nella hall del nuovo showroom di Herno a Milano e, naturalmente, la Cappelletta del Barolo di Sol LeWitt e David Tremlett, tra i meravigliosi vigneti di Ceretto, nelle Langhe.

Immaginiamoci che oltre alla sua Fondazione decida di aprire un’azienda, di scarpe ad esempio, quali azioni adotterebbe per portare l’arte in azienda e quali artisti chiamerebbe?

Adoro le scarpe, tanto che con ArtColLab, un progetto della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, abbiamo prodotto un’edizione limitata di scarpe, concepite dal designer Nicholas Kirkwood con l’artista Paul Kneale. Comincerei con l’inserimento di opere della mia collezione negli uffici, nei laboratori, negli spazi comuni dell’azienda. Di certo non resisterei all’idea di esporre «Dedicated to Marylin Monroe», le gigantesche scarpe di Joana Vasconcelos fatte di pentole e coperchi, una scultura pop che riflette in realtà su questioni di genere. Ampliando il tema, cercherei una collaborazione con Scarpe rosse, le installazioni contro i femminicidi nate nel 2009 da un’idea dell’artista messicana Elina Chauvet.  

Nicola Zanella, 11 ottobre 2024 | © Riproduzione riservata

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