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Juergen Teller, «Lars Eidinger, No.6, London, 2022»

© Juergen Teller

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Juergen Teller, «Lars Eidinger, No.6, London, 2022»

© Juergen Teller

Juergen Teller: «A Sabbioneta la mia mostra più intima»

Dopo le retrospettive di Parigi e Milano, il fotografo che ha rivoluzionato il linguaggio della moda sceglie la città-fortezza patrimonio dell’Unesco per esporre le immagini di natura intima e personale. Lo abbiamo intervistato in esclusiva

Teresa Scarale

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Sette è un numero biblico. Fra i suoi significati c’è quello della completezza, della creazione. Ed è forse alla «completezza creativa» che è dedicata «7 ½», la mostra più personale di Juergen Teller (Germania, 1964), curata da Mario Codognato. Inaugurata il 12 aprile al Palazzo Giardino di Sabbioneta (Mantova), città patrimonio Unesco, l’esposizione mette in fila in un allestimento sorprendente istanti miliari di una quotidianità relativamente recente, eppure radicata: la storia di un uomo, di una donna, della loro bimba. Momenti di natura estremamente personale, intrecciati con il lavoro di lui, i viaggi, le suggestioni urgenti, la caffeina, le star che di volta in volta davanti al suo obiettivo, con fiducia, abbassano le difese. Sette e mezzo sono gli anni di collaborazione artistica di Juergen con sua moglie Dovile Drizyte (Lituania, 1982), compagna di vita e di creatività. Come spiega il curatore, «l’inclusione del quotidiano, l’istantaneo congelamento di ogni situazione immaginabile, hanno anticipato l’estetica dei social e influenzato in maniera evidente e inesorabile le ultime generazioni nel campo fotografico». L’allestimento, concepito dall’artista con il curatore e progettato dall’architetto Federico Fedel, si muove su due piani orizzontali. Nella Sala degli Specchi, le fotografie sono appese a soffitto. Nella Galleria degli Antichi, sono disposte orizzontalmente sul lunghissimo tavolo che la percorre. Una sorta di unione fra pieno e vuoto, positivo e negativo. Abbiamo intervistato l’artista.

Osservando l’allestimento della mostra, d’istinto, non si può fare a meno di pensare allo Yin e allo Yang.
Abbiamo voluto dar senso a questo spazio. Mario Codognato ha avuto la brillante idea dell’orizzontalità. La serie esposta in alto si chiama «Stiamo costruendo il nostro futuro insieme», e mi è sembrato appropriato metterlo lì in alto, il nostro futuro. Sono molto orgoglioso di questa installazione site specific. 

È come aver superato i confini convenzionali di una relazione: non avete usato le pareti, ma solo un soffitto e un tavolo. Sembra un gioco tra cielo e terra.
Sì, sì. Suona bellissimo quello che hai detto. Il cielo e la terra. E la vita in mezzo. Dopo il grande show alla Triennale di Milano lo scorso anno («i need to live», 2024), volevo creare qualcosa di nuovo, di specifico. Per me è stato importante e sensato andare sul personale.

Quanta razionalità c’è nel suo impulso creativo?
Che si tratti di una commissione o di un lavoro personale, come in questo caso, penso molto a ciò che voglio dire e a come voglio presentarlo. Tutto deve avere senso.

La croce è un elemento che ricorre spesso nelle fotografie qui esposte. Qual è la sua relazione con la religione cattolica?
Sono cresciuto cattolico; da ragazzo vivevo con difficoltà la religione. Ma poi crescendo ho capito che devi credere in qualcosa; devi essere positivo. È buono credere in qualcosa. Anche mia moglie è cresciuta cattolica e la sua famiglia è molto religiosa. Inoltre mi capita di ascoltare spesso una radio tedesca in cui si raccontano storie della Bibbia: cose molto profonde, sagge. Mi piace. Durante i nostri viaggi visitiamo le chiese. È meraviglioso il loro potere: la bellezza delle chiese è che alcune sono brutte, mentre altre sono incredibilmente belle. Ma hanno tutte lo stesso fascino.

Il suo legame con l’Italia.
Mi piace molto. Ci veniamo spesso. Ho scattato moltissimo, in Italia, forse più che altrove. Sia foto private che di lavoro. Ovviamente ho scattato molto in America, in Francia, in Lituania, in Germania. Ma c’è qualcosa di davvero bello qui, non lo so, forse ho qualche tipo di connessione con questo Paese. C’è poi dell’altro: dal Vaticano mi hanno chiesto di fotografare il Papa. È stata un’esperienza straordinaria. Incontrarlo è stato emozionante. Mi piace davvero ciò che fa. Pensa in modo molto moderno e umano. Forse da quel momento il mio legame con l’Italia si è fatto ancora più profondo.

Come posiziona se stesso in relazione alla decadenza?
Sono cresciuto in un piccolo paese in Germania. «Kitsch» (letteralmente, «scarto», Ndr) è una parola tedesca. Poi a un certo punto nella mia vita mi sono trovato a Parigi, in questo albergo lussuosissimo, l’Hotel de Crillon. E mi sono detto: anche questo è kitsch. Solo che è kitsch costoso. L’ho apprezzato, l’ho riconosciuto; quindi mi sono messo a fotografare. Sono interessato alla vita. Ho fotografato qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa sia nel mio cuore, qualsiasi cosa mi interessi, ne faccio un progetto. La vita è molto difficile; può essere triste ma anche divertente e bizzarra. Cerco dunque di essere estremamente serio con grande senso dell’umorismo.

Chi scrive gli mostra una foto della melagrana esposta in mostra. Un frutto maturo, quasi secco. Pieno di chicchi. Poi quella di due teste d’aglio.
Una fotografia scattata in Iran, in mezzo al nulla: il melograno è tipico di quelle zone. Era il 2019. Un ottimo momento per visitare quel Paese, il cuore della civilizzazione. Era stata Dovil a chiedermi di andare in Iran. Lei mi mantiene vivo, mi dona un’energia sempre nuova. L’aglio invece proviene da un mercato nei pressi della casa dei genitori di Dovil, in Lituania. Era bellissimo, aveva un bel colore, mi aveva colpito. Siamo entrambi molto legati alle nostre famiglie di origine.

Qual è la «star» che ha più amato nel suo lavoro?
Mia moglie!

Sua moglie a parte…
Mia figlia! Ok... Sto scherzando. Sento una profonda connessione con un mio vecchio amico, l’artista e fotografo Boris Mikhailov (Kharkiv, Ucraina, 1938). È brillante, adoro il suo lavoro, come è, come lo fa. È una persona meravigliosa. Ma in realtà ci sono un sacco di persone in questa mostra che significano molto per me, a parte un paio di attori che non conosco così bene; ma che mi piacciono. 

Come avete scoperto Sabbioneta?
Grazie al curatore. Avevamo già lavorato insieme a Napoli, a Villa Pignatelli ( «Juergen Teller HandBags», dal 14 Aprile-19 Maggio 2019, a cura di Mario Codognato e Adriana Rispoli, Ndr) e in altre occasioni. Un anno fa mi propone di venire qui a Sabbioneta, dicendomi che c’era stato anche Georg Baselitz (con la mostra «Belle Haleine», dal 27 aprile al 24 novembre 2024, Ndr). Poi Mario è venuto a Londra insieme a Ezio Zani (direttore della Fondazione Sabbioneta Heritage, Ndr) e all’architetto. Una grande sfida è stata proprio quella dell’allestimento. Si pensi solo alla perfezione del tavolo: nonostante sia lungo credo 84 metri, è perfettamente piatto e sottile, persino stabile sull’antico pavimento ondulato del Palazzo Giardino. Anche il lavoro fatto con le luci è splendido. È un progetto assolutamente sostenibile, da ogni punto di vista: sia per l’inserimento armonioso negli ambienti che per il coinvolgimento attivo dell’artigianato locale.

Quando ha iniziato a scattare le sue foto (anche) con l’iPhone?
Nel 2016. 

Cosa vorrebbe aggiungere a quanto detto?
Amo mia moglie. 

Dovil ride e aggiunge: «penso sia meraviglioso avere l’opportunità di portare questa qualità di lavoro anche in luoghi piccoli, che non siano per forza Milano o Parigi. È molto democratico. Speriamo sia anche un’occasione per far arrivare le persone qui a Sabbioneta, a Mantova, perché vedano la bellezza incredibile di questi luoghi. Penso anche che sia una grande sfida per gli artisti scoprire spazi di tale bellezza e arrivare valorizzarli in armonia con la loro natura. Noi ci abbiamo messo quasi un anno. Alla fine, la teatralità dell’insieme è risultata splendida».

Teresa Scarale, 19 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

Juergen Teller: «A Sabbioneta la mia mostra più intima» | Teresa Scarale

Juergen Teller: «A Sabbioneta la mia mostra più intima» | Teresa Scarale