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Francesca Amé
Leggi i suoi articoliFino al 22 marzo 2026 il Camden Art Center di Londra presenta «Tendered», prima personale istituzionale nel Regno Unito dell’artista e regista anglo-nigeriana Karimah Ashadu (Londra, 1985), a cura di Alessandro Rabottini e Leonardo Bigazzi di Fondazione In Between Art Film. Ashadu, che il «New York Times» ha recentemente definito «osservatrice incisiva dell’Africa contemporanea», è famosa per i suoi film d’artista incentrati sulla cultura nera e sulle narrazioni africane e per il suo sguardo originale, libero (e liberato) dalla cultura postcoloniale.
Ce ne siamo accorti subito anche noi quando, nel 2024, ha presentato alla Biennale d’Arte di Venezia il suo «Machine Boys», video ispirato ai guidatori di mototaxi (illegali) a Lagos che amano vestirsi alla moda (ovvero con Gucci et similia contraffatti): l’opera le è valsa il Leone d’Argento per un giovane artista promettente. Oggi Karimah Ashadu continua a vivere tra Europa e Lagos, in Nigeria, solo che ha messo in atto la sua personalissima «Brexit» da Londra per l’aria «più tranquilla e confortevole» di Amburgo, una città, dice, «dove è più facile concentrarsi sul proprio lavoro e guardarsi dentro senza troppe distrazioni».
Un’artista così non poteva che essere intercettata dalla Fondazione In Between Art Film: fondata a Roma nel 2019 da Beatrice Bulgari, che ne è la guida e la presidente, l’istituzione promuove la cultura delle immagini in movimento e sostiene artisti e centri di ricerca internazionali che indagano tutto quel mondo di confine tra cinema, video, performance e installazione.
Da questo felice incontro è nata la mostra al Camden Art Centre dove, oltre a opere già esistenti (come «King of Boys» del 2015, uno sguardo sperimentale sul funzionamento del mattatoio di Makoko, e «Cowboy» del 2022, un’opera video a due canali incentrata sulla vita di un uomo dedito alla cura dei cavalli), è esposta «Muscle», una videoinstallazione commissionata per l’occasione: è una nuova indagine di Karimah Ashadu sui temi dell’indipendenza socio-economica e del patriarcato nel contesto della società e della cultura dell’Africa occidentale. Da questo progetto comincia la nostra conversazione.
«Muscle» ritrae da vicino uomini nei quartieri disagiati di Lagos che perseguono un «ideale ipermaschile» attraverso l’allenamento fisico. Perché questa scelta?
«Muscle» è un lavoro profondamente stratificato. Da un lato, riflette sul patriarcato all’interno di un contesto distintamente nigeriano, in cui il corpo maschile diventa sia un simbolo di status sia una sorta di armatura, un modo per proiettare forza e proteggersi dalle realtà quotidiane delle baraccopoli. Dall’altro, parla dei sistemi di capitalismo e autodeterminazione, tracciando paralleli tra la cultura del bodybuilding e l’economia nigeriana della «pure water», cioè di quei sacchetti di plastica di acqua onnipresenti nelle strade, dove quasi chiunque può avviare la propria azienda di «pure water». In questo modo, «Muscle» estende la mia indagine sul lavoro, l’autonomia e il consumismo, ovvero su come gli individui si ritagliano valore e indipendenza all’interno dei vincoli del loro ambiente.
Quanto è importante instaurare una connessione empatica con gli individui e le comunità che filma e in che modo il suo background forma il linguaggio visivo che ha utilizzato?
Penso sia vitale avere una connessione personale con la Nigeria. Ne deriva una responsabilità e una comprensione intima delle dinamiche sociali, culturali e politiche del Paese. Per troppo tempo le narrazioni sull’Africa, e in particolare sulla Nigeria, sono state costruite attraverso uno sguardo esterno, spesso da coloro che sono distaccati dal peso della storia e dagli effetti duraturi della colonizzazione.
È cresciuta tra il Regno Unito e la Nigeria e oggi vive in Germania: in che modo questo ha influenzato la sua arte?
La mia prospettiva è profondamente plasmata dall’esperienza di navigare tra culture multiple. Muoversi tra luoghi come il Regno Unito e la Nigeria, e ora anche la Germania, mi ha dato uno sguardo multidimensionale sul mondo. Mi ha insegnato a sostenere diverse verità contemporaneamente, a osservare senza giudizio e a tradurre la complessità con empatia. Vivere in Germania ha aggiunto un altro livello: acuisce ogni giorno, anche grazie allo studio del tedesco, la mia consapevolezza di appartenenza, di distanza e di identità, tutti elementi che contribuiscono al come e al perché realizzo il lavoro che faccio. È sfidante? Sì, ma è il mio modo di procedere.
Nel 2024 ha vinto il Leone d’Argento per un Giovane artista promettente alla Biennale di Venezia: questo riconoscimento che impatto ha avuto sul suo percorso artistico?
Ricevere il Leone d’Argento mi è sembrato un potente riconoscimento non solo del lavoro in sé, ma degli anni di quieta persistenza dietro esso. Ha aperto porte, ampliato la visibilità della mia pratica e approfondito il mio senso di responsabilità verso le persone e le storie al centro dei miei film. Il premio porta ovviamente con sé anche una certa pressione, ma cerco di rimanere focalizzata, di mantenere la mia attenzione verso me stessa, per continuare a creare a partire dall’istinto, dalla curiosità e dalla sincerità e non dalle aspettative di altri. Ciò che mi ha toccato di più è stato vedere il mio modo di guardare il mondo risuonare così ampiamente.
Nel 2020 ha fondato la società di produzione Golddust by Ashadu, specializzata in film d’artista incentrati sulla cultura nera e sulle narrazioni africane. Come ci si sente a essere contemporaneamente artista, imprenditrice e attivista?
Non mi descriverei come un’attivista, anche se sono profondamente motivata da uno scopo. Credo di non dover prendere posizione pubblica: le mie opere parlano per me. Quando ho avviato Golddust, non capivo ancora la piena portata di ciò che poteva diventare. Col tempo, ho realizzato che il suo vero potenziale risiedeva in Nigeria invece che in Germania, dove l’avevo originariamente fondata: lì poteva avere un effetto più significativo e dirompente e quindi mi sono mossa rapidamente per realizzarlo. Mi fido del mio istinto. Investo in Golddust per supportare gli artisti che lavorano con l’immagine in movimento: siamo anche desiderosi di sviluppare partnership con le istituzioni per garantire che l’impatto dei progetti in Nigeria duri nel tempo. Sono sempre stata «imprenditrice» per natura: mi piace creare, costruire e anche generare ricchezza. Per me, l’indipendenza economica riguarda la libertà di scelta, in particolare in quanto donna nera. La mia pratica artistica, da questo punto di vista, funziona come un’attività commerciale: impiego persone, reinvesto nel mio lavoro e creo sistemi che si sostengono da soli. Questo è molto responsabilizzante, specie per chi come me ha origini piuttosto modeste.
Com’è iniziata la sua collaborazione con la Fondazione In Between Art?
La mia bussola interna ha sempre puntato verso la felicità e la realizzazione. Fin da bambina ho riconosciuto che la creatività era il luogo in cui mi sentivo più viva: ho continuato a seguire quella sensazione da allora. Sono felice quindi di dire che la mia collaborazione con la Fondazione In Between Art Film è cresciuta grazie alla mia connessione di lunga data con il curatore Leonardo Bigazzi, che conosco da quasi un decennio. Alcuni anni fa mi ha invitato a partecipare al loro progetto «Penumbra», segnando l’inizio della mia collaborazione con la Fondazione e ora siamo arrivati alla mia prima mostra personale nel Regno Unito al Camden Art Centre, curata proprio da Leonardo Bigazzi e Alessandro Rabottini. La Fondazione è stata incredibilmente solidale e aperta, con una rara profondità di comprensione per il tipo di lavoro che realizzo.