«Io sono un artista. Il mio lavoro è quello di disegnare, non di far qualcosa che abbia senso», ha detto recentemente William Kentridge (Johannesburg, Sudafrica, 1955) con l’ironia figlia dell’intelligenza, mentre si presentava al suo pubblico nel corso di un evento. Ma le sue creazioni, disegni, animazioni, sculture, stampe, arazzi, installazioni e performance di senso ne hanno moltissimo.
È fatto noto, considerata la sua fama e il suo prestigio internazionale. Il magazine «Time», tra l’altro, nel 2009, lo ha inserito tra le 100 persone più influenti al mondo. Al centro della sua opera sono sempre stati e continuano a essere l’orrore dell’apartheid e dell’ingiustizia sociale e la cruda realtà della politica, che ha conosciuto bene da sempre, essendo cresciuto in una famiglia in cui il nonno è stato membro del Parlamento per quarant’anni e i suoi genitori avvocati che hanno difeso per anni le vittime dell’apartheid e sono stati coinvolti in uno dei processi di Nelson Mandela.
«Sono cresciuto in una casa in cui respiravo la rabbia profonda, incandescente, che i miei genitori provavano per la realtà che vivevamo», ha affermato. E di quella rabbia incandescente racconta ora, fino al 9 aprile, il Broad Museum che presenta la grande mostra «William Kentridge: In Praise of Shadows», che celebra i trentacinque anni della sua carriera, mentre in contemporanea, Redcat presenta la prima internazionale della performance «Play Houseboy» di Kentridge, per la regia di Ferdinand Oyono.
Organizzata secondo criteri sia tematici sia cronologici, la mostra riunisce oltre 130 lavori di Kentridge, compresi «The Refusal of Time» (2012), una delle sue opere multimediali più celebri, e la monumentale performance «The Head & The Load», sulle storie mai raccontate degli africani nel contesto della seconda guerra mondiale. E di quella rabbia con cui lui è cresciuto è sempre profondamente intrisa ciascuna di queste opere.