«Le case del Foro Traiano» (1930) di Mario Mafai, Roma, Galleria d’Arte Moderna

Image

«Le case del Foro Traiano» (1930) di Mario Mafai, Roma, Galleria d’Arte Moderna

L’Espressionismo italiano tra Roma, Milano e Torino

Nella Galleria d’Arte Moderna riunite 130 opere di collezioni pubbliche romane e della raccolta milanese di Giuseppe Iannaccone, avvocato-collezionista animato da «una benefica ossessione per l’arte»

La mostra «L’estetica della deformazione. Protagonisti dell’espressionismo italiano», alla Galleria d’Arte Moderna di Roma fino al 2 febbraio 2025, permette di scrutare l’arte italiana tra le due guerre da un’angolazione inedita. La rassegna raccoglie 130 opere provenienti da collezioni pubbliche romane e una privata milanese, quella di Giuseppe Iannaccone. Sono tutti lavori che si pongono agli antipodi del sereno classicismo del Novecento sarfattiano, per una visione inquieta ed emotiva della vita. Curata da Arianna Angelelli, Daniele Fenaroli e Daniela Vasta, la mostra mette a fuoco i tre centri maggiori di quest’arte soggettiva, talvolta visionaria, dominata dall’antinaturalismo delle tinte e dalla «deformazione» dei contorni, ovvero Roma, Torino e Milano.

Per Roma, fucina di nuove e interiorizzate visioni sarà la Scuola di Via Cavour (così definita da Longhi), animata da Scipione (Gino Bonichi), Mario Mafai e la lituana Antonietta Raphaël-Mafai. Lo scipioniano «Cardinal Decano», dipinto nel 1930, con le sue tinte livide e l’atmosfera onirica, rappresenta il diapason di tutta la mostra. Sulla sua lunghezza d’onda si mettono le vedute romane di Mafai, ma, a Roma, anche il materismo di Fausto Pirandello o i «barocchismi» di un mondo da sottosuolo di Alberto Ziveri.

A Torino, l’antiaccademismo assume aspetti meno allucinati, ma più «francesi»: nella pittura del gruppo dei Sei, la vicinanza con la pittura d’oltralpe, dall’Impressionismo ai Fauve, palpita nelle immagini di Gigi Chessa, Nicola Galante, Francesco Menzio e Carlo Levi. Fari di questa cultura figurativa, sotterraneamente tinta anche di ribellione alle atmosfere culturali imposte dal fascismo, sono la pittura di Felice Casorati, la critica d’arte di Edoardo Persico e il cosmopolitismo del futuro esule Lionello Venturi.

A Milano, fulcro di una pittura nuova, viscerale e coltamente primitiva, è la rivista «Corrente», fondata dal diciottenne Ernesto Treccani e soppressa dal regime il 10 giugno 1940, giorno mortifero della dichiarazione di guerra. Sulla rivista, oltre a testi dei maggiori scrittori, filosofi e poeti italiani, vengono pubblicate scritti e immagini di una giovane generazione di artisti, tra cui Aligi Sassu, Renato Birolli, Renato Guttuso, Emilio Vedova, Ennio Morlotti, Bruno Cassinari e Arnaldo Badodi: in loro freme una pennellata selvaggia, con cromie eccitate e segni fluttuanti. I temi non sono antifascisti (non potevano esserlo), ma l’animo guarda a una libertà che sarà conquistata da lì a pochi anni, dopo l’apocalisse della guerra nazifascista. 

Per Daniele Fenaroli, giovane curatore della Collezione Iannaccone, nonché direttore della Fondazione Giuseppe Iannaccone, l’opera più significativa in mostra, o almeno quella da lui più amata, è «La battaglia di tre cavalieri» dipinta da Aligi Sassu nel 1941, e rifiutata dal Premio Bergamo di quell’anno, per i sotterranei riferimenti antifascisti: «La dipinse pensando alla follia della guerra civile spagnola. L’idea nasce però in carcere, dov’era stato rinchiuso per aver distribuito volantini antiregime. È un manifesto sull’inutilità della guerra. L’assenza di sangue, nonostante la virulenza dello scontro, secondo l’artista era dovuto al fatto che in una guerra non muore l’uomo, ma la sua umanità».

Come nasce la mostra?
Nasce da un’esigenza storica: la Collezione possiede il più grande numero di opere della Scuola romana e della Scuola di Via Cavour, ma queste opere non erano mai state presentate in blocco nella Capitale. Quindi è un ritorno a casa.

Progetti futuri della Fondazione-Collezione?
Stiamo elaborando l’idea di una mostra di Badodi, magari a Milano, e magari dei Sei, possibilmente a Torino. Ma sarebbe importante anche un ritorno a Roma, visto la centralità di questa città nelle passioni culturali di Iannaccone.

Che cosa significa lavorare con l’avvocato-collezionista?
Significa condivisione di entusiasmi e di percorsi in un rapporto, soprattutto di scambi, che ti chiede tanto, ma ti dà anche tanto. Lui ha una benefica ossessione per l’arte, e io lo seguo su questa strada.

«Il caffeuccio veneziano» (1942) di Emilio Vedova. Foto: Studio Vandrasch. Cortesia della Collezione Giuseppe Iannaccone, Milano

Guglielmo Gigliotti, 10 luglio 2024 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

L’Istituto Massimo di Roma all’Eur ha promosso il restauro del ciclo di 14 affreschi commissionato da papa Sisto V, rara testimonianza della distruzione della dimora nobiliare

Nella Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma oltre cento acqueforti dell’incisore, con Morandi, più importante del ’900 italiano

Venti opere della scultrice franco-americana sono allestite accanto a Bernini, ma anche nei Giardini segreti e nell’Uccelliera

Dopo il Guggenheim di Bilbao arriva in Italia l’ultima mostra a cui l’artista recentemente scomparso ha lavorato: 25 opere esemplari della sua ricerca nei segreti della materia

L’Espressionismo italiano tra Roma, Milano e Torino | Guglielmo Gigliotti

L’Espressionismo italiano tra Roma, Milano e Torino | Guglielmo Gigliotti