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Silvia Mazza
Leggi i suoi articoliLondra. Al British Museum di Londra vanno di scena, per la prima volta nel Regno Unito, quattromila anni di storia della Sicilia, dai Fenici ai Greci, Romani, Bizantini, Arabi e Normanni, con in primo piano le colonie greche (a partire dal VII secolo) e la dominazione normanna (dall’XI secolo d.C.), «uno dei periodi che pensiamo, ha detto il cocuratore Dirk Booms a “The Guardian”, siano ancora poco conosciuti al pubblico. Pochi sanno che i Normanni sono andati in Sicilia nel 1061, prima di conquistare l’Inghilterra».
Una mostra, dunque, quasi «necessaria», se si aggiunge che al di là della Manica l’isola al centro del Mediterraneo è ancora quella per la quale lo stesso tabloid britannico scrive che l’evento serva «to prove there is a lot more to Sicily than lemons and the mafia». E per dimostrarlo «Sicily: Culture and Conquest», in collaborazione con la Regione Siciliana e sponsorizzata da Julius Bär, riunisce dal 21 aprile al 14 agosto oltre 200 oggetti d’arte, appartenenti alla collezione permanente del museo e in prestito da altri musei italiani, da Stati Uniti e Regno Unito.
Dalla Sicilia arrivano 36 opere, tra cui un raro altare in terracotta con triade divina (500 a. C.), dal Museo Archeologico di Gela; l’antefissa di Gorgone da quello di Agrigento (500 a. C.), da cui proviene anche la statua in marmo di «Guerriero» (470 a. C.); il rostro rinvenuto recentemente nelle acque prospicienti Levanzo, che documenta la battaglia finale del 10 marzo 241 a.C. che portò alla conquista da parte di Roma; un mosaico bizantino con Vergine Avvocata (XII secolo d. C.), dal Museo Diocesano di Palermo, che, insieme ad altri oggetti rappresenta l’eclettismo artistico fiorito sotto Ruggero II.
Una mostra, insomma, da cui gli inglesi sapranno tirare fuori un sold out, anche senza pretendere di bissare il successo di quella dedicata nel 2013 a Pompei ed Ercolano, dal titolo «Life and Death in Pompeii and Herculaneum», visitata da 471mila persone, che si è aggiudicata il titolo di terza mostra più visitata nella storia del museo dal 1753. E se Pompei sbancava a Londra, realizzando 11 milioni di euro al botteghino, e intanto le immagini dei suoi crolli in patria facevano il giro del mondo, lo scenario per la Sicilia non sembra essere molto diverso col Castello federiciano di Augusta che sta franando in mare (cfr. ilgiornaledellarte.com 18 febbraio 2016) e i musei che hanno prestato le opere che non hanno i soldi nemmeno per le linee telefoniche o la carta igienica.
I termini originari dell’accordo tra Regione Siciliana e British
Mettiamoci pure che i termini dello scambio tra Regione siciliana e istituto londinese appaiono parecchio lontani da quella nuova stagione della reciprocità che l’allora assessore Mariarita Sgarlata lanciava nel 2013, avviando, tra l’altro, proprio le prime trattative col British (cfr. n. 335, ott. ’13, p. 14 e ilgiornaledellarte.com 27 gennaio 2014).
Nel frattempo l’interlocutore degli inglesi è cambiato per ben tre volte, tante quanti sono stati gli assessori al ramo ruotati da Crocetta (e dall’inizio della legislatura cinque in soli tre anni). I patti, infatti, in origine, erano un po’ diversi. Si disse no sia alle opere richieste, quasi tutte tra quelle che proprio in quell’anno la Regione aveva inserito in una lista di beni non prestabili ordinariamente, cosiddetti inamovibili (cfr. nn. cit.), sia al periodo proposto, primavera-estate del 2015, che avrebbe privato la Sicilia di molti dei suoi capolavori, in un periodo di intenso flusso turistico, anche nell’ipotesi dei viaggiatori che si sarebbero fermati in Italia per l’Expo.
Durante i primi mesi del 2014, quindi, si raggiunse un accordo interessante, per il quale la mostra della Sicilia al British si fissava per l’inverno-primavera 2016. In questo modo si sarebbe salvata, per la Sicilia la stagione turistica 2015 e, per la prima volta, si sarebbe applicato un principio di reciprocità in base al quale prima si sarebbe organizzata una mostra in Sicilia e dopo si sarebbe passati al cambio di offerta. Il museo britannico, infatti, si sarebbe impegnato a organizzare già nella primavera-estate del 2015 una mostra nell’isola, che avrebbe accolto il cosiddetto tesoro di Lord Hamilton, con la possibilità di raffrontare la prestigiosa collezione con i pezzi dei musei siciliani e di creare legami tra il personaggio e la storia della Sicilia (Palazzina Cinese, Palazzo di caccia di Ficuzza, Abbazia di Maniace).
Alla fine, invece, ci si è accontentati di mettere una firma al ribasso culturale.
Confidando, per un verso, sul solito ritorno in termini di pubblicità, quando proprio la recente esperienza dell’Expo, nel miraggio di attrarre i visitatori dalla vetrina milanese in Sicilia, avrebbe dovuto insegnare che quel ritorno d’immagine non c’è affatto stato. Per cui, voci inserite nei termini dello scambio come a favore della Regione, quali la serie di iniziative di promozione della cultura siciliana negli spazi del museo, dall’ascolto di musica folk allo svolgimento di corsi di cucina regionale, e di vendita dei prodotti dell’eccellenza gastronomica e dell’artigianato, più che rafforzare quella che ci viene detto essere oltre Manica una solida equazione, Sicilia=terra dei limoni, sono attività promozionali collaterali ad ulteriore arricchimento in situ dell’offerta dell’exhibition.
Tasto dolente, la comunicazione. Perché se il British si è impegnato a divulgare l’evento presso le principali testate e televisioni, britanniche ed internazionali e attraverso campagne pubblicitarie nei luoghi di maggiore affluenza di Londra; e a sostenere il viaggio lo scorso febbraio, nei principali siti e musei siciliani, di un gruppo di giornalisti di testate come il «Financial Times» o «The Guardian» (e, in effetti, da giornalisti spesati è difficile che venga licenziato qualcosa di diverso da un’immagine patinata del patrimonio siciliano), nell’isola, invece, proprio per quel principio di reciprocità anticipata per cui si sono allestite due mostre tra fine ottobre e metà dicembre scorso, tra Siracusa ed Agrigento (cfr. ilgiornaledellarte.com 25 novembre 2015), si è stati penalizzati dai limiti al battage pubblicitario imposto dal museo londinese che ancora doveva fare il suo lancio ufficiale. Fatto sta che la notizia è girata solo a ridosso delle inaugurazioni. Senza alcun impatto sul numero dei visitatori.
Nella prima tappa della mostra dal titolo «Tesori della Sicilia. Gli ori del British Museum a Siracusa», tra il 23 ottobre e il 23 novembre 2015, sono stati circa 2.600, più o meno quanti se ne erano registrati nello stesso periodo del 2014, quando si era tenuta la mostra sugli Egizi. Complice la scelta infelice del mese, in bassa stagione: a ottobre i visitatori sono stati 2.729 a fronte dei 6.340 di settembre.
Ma le mostre siciliane non le si doveva fare in estate? Anche quella in programma al Salinas di Palermo, nella sala Metope con i disegni originali delle metope di Harris e Angel al momento del ritrovamento, è in calendario per la fine della stagione turistica di punta in Sicilia: la si farà in settembre. E lo apprendiamo del tutto casualmente, pur avendo chiesto all’Assessore Carlo Vermiglio nel dettaglio i termini dello scambio.
Infine, a parte il restauro a proprie spese del «Guerriero di Agrigento» presso il Centro regionale Progettazione e Restauro di Palermo, il British verserà all’Assessorato una royalty del 10%, derivante dalle vendite dei cataloghi e del merchandising. Ma i termini di ritorno possono essere valutati solo sul doppio binario cassa-pubblicità? O non andrebbe valutato se sussista un equivalente significato culturale tra una grande esibizione della durata di 5 mesi con prestiti importanti dai principali istituti dell’isola e brevi esposizioni qua e là in patria con pochi oggetti (la patera aurea e due anelli di Sant’Angelo Muxaro alla Biblioteca Lucchesiana, a cui si erano aggiunti i gioielli del ripostiglio di Avola al Museo Orsi, i disegni al Salinas) e non legate dal fil rouge di un unico progetto espositivo adeguatamente comunicato? in nome di una presunta valorizzazione non si asseconda, piuttosto, la deriva commerciale dei valori del patrimonio? Come accaduto l’estate scorsa, quando al Parco della Valle dei Templi ci si era accontentati di 100mila euro (cfr. ilgiornaledellarte.com, 7 settembre 2015 e n. 361, feb. ’16, p. 9) invece di contrattare con Google, per esempio, la digitalizzazione del patrimonio siciliano e/o un serio progetto di visibilità sul web, pari quasi a zero. Lasciando da parte le questioni di decoro violato di uno dei più importanti siti Unesco del Mediterraneo, almeno al Parco di Agrigento dotato di autonomia finanziaria i soldi sono rimasti in loco, mentre quelli da Londra finiranno nel calderone del Bilancio regionale, senza ricadute positive per i siti culturali.
Nel 2013 al nostro giornale ancora la Sgarlata diceva: «Dobbiamo interrogarci: quanti hanno gioito in questi anni per la presenza dei nostri “gioielli di famiglia” a Londra si sono forse chiesti se il British accorderebbe con altrettanta generosità il prestito di qualche lastra del fregio del Partenone a un museo siciliano? Penso che questi rapporti asimmetrici abbiano fatto il loro tempo».
A distanza di tre anni la realtà è che si attende ancora pure la contropartita per la grande monografica dedicata sempre alla Sicilia, tra il 2013 e il 2014, negli States, prima al Getty, poi al Cleveland, museo quest’ultimo che avrebbe dovuto prestare capolavori della sua collezione per una mostra sul Caravaggio da allestire nel 2015 nell’isola (cfr. n. 335, ott. ’13, p.).
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Statua in marmo di guerriero da Akragas, 470 a. C., Agrigento, Museo Archeologico Regionale © Regione Siciliana

Anello sigillo in oro da Sant'Angelo Muxaro, Siracusa, Museo Archeologico Carlo Orsi

Antefissa a maschera gorgonica da Gela, 500 a.C. ca, Museo Archeologico Regionale di Agrigento © Regione Siciliana

Triade Divina da Bosco Littorio, Gela, Museo Archeologico
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