Con il termine «piazza di casa» in Sardegna si usa indicare lo spazio davanti a casa dove sfera privata e pubblica si incontrano. «Riferita a un’area spesso provvista di una panchina o di una sedia su cui è possibile sostare, questa espressione indica una zona di transizione non chiaramente delimitata, al tempo stesso individuale e collettiva». Lo spiega Nairy Baghramian, artista e designer di etnia armena che dal 1984 vive a Berlino in seguito all’emigrazione per motivi politici della famiglia in fuga dall’Iran dove Nairy era nata nel 1971.
L’artista, vincitrice del Premio Nivola per la scultura 2023, ha scelto questa espressione, citandola in dialetto sardo, per dare il titolo alla mostra «Pratza ’e Domo. Una casa semiotica mai costruita», a cura di Giuliana Altea, Antonella Camarda, Luca Cheri, ospitata al Museo Nivola di Orani (Nuoro) dal 29 giugno al 3 novembre. La mostra, che prende inizio con la nuova scultura «To Let», montata sulla facciata dell’edificio, pone in dialogo le opere della stessa Nairy Baghramian con quelle di Phyllida Barlow, Nicolas Hsiung, Janette Laverrière, Rosemary Mayer, Win McCarthy, Julie Mehretu, Oscar Murillo, Paulina Olowska, Monica Sosnowska e Mariantonia Urru. Il progetto riprende quello già realizzato da Baghramian nel 2008 al Nak - Nauere Aachener Kunstverein (associazione non profit per l’arte contemporanea di Aquisgrana) insieme a Janette Laverriére e Henrik Olesen: «Affairs. A semiotic house which was never built».
Risuona nel concept e nella sua filosofia con la mostra «Ensemble» concepita da Julie Mehretu (presente anche qui a Orani, così come le opere di Baghramian si trovano in «Ensemble») per Palazzo Grassi a Venezia come una polifonia di voci, segnate da esperienze di abbandono della propria terra di origine. Mostre entrambe in cui l’opera dell’artista-curatrice si fonde con la sua esistenza nella sintonia con altri artisti, amici e compagni di un percorso creativo tangente. Una condizione, quella dell’esilio, che fu anche di Costantino Nivola e di sua moglie Ruth Guggenheim, fuggiti dall’Italia fascista nel 1938 per stabilirsi a New York, a cui sono intitolati il museo e la fondazione nati nel 1995. «La casa è come uno spazio utopico che non è mai stato costruito e potrebbe non esserlo, ma il solo fatto di immaginarlo ne evoca la possibilità di esistenza, rendendolo credibile, spiega Nairy Baghramian. È un ambiente provvisorio in cui sviluppare o accantonare idee e progetti, in un processo di continua elaborazione e riassemblaggio di frammenti. Ogni frammento è una creazione indipendente e al tempo stesso concorre “con un movimento all’indietro”».
Presente alla Biennale di Venezia nel 2019, il lavoro di Baghramian è caratterizzato, come anche nella mostra «Misfits» alla Gam di Milano nel 2020, dalla riflessione sui confini tra spazio pubblico e privato, esterno e interno, potenzialmente permeabili. Una riflessione che qui assume una connotazione particolare, dovuta alla forma dello spazio espositivo, un tempo lavatoio, a tetto di capanna, dove lo spazio istituzionale può essere percepito e vissuto come un ambiente domestico: «La sua accoglienza viene accentuata dalle opere che ospita, come un recinto in cui discorsi artistici diversi possono coesistere e risuonare insieme», aggiunge l’artista. Altri temi ricorrenti sono il confine indefinito tra arte e design, in opere volutamente ibride come la sedia-scultura «Chaise L’Afghane» (1987) di Janette Laverrière, e il non finito che ritorna, ad esempio, nella casa in costruzione su un albero dipinta da Paulina Olowska («Tree House», 2016) così come nelle composizioni astratte di Julie Mehretu.