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«Senza titolo» (2001) di Jannis Kounellis (particolare). Courtesy Archivio Kounellis

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«Senza titolo» (2001) di Jannis Kounellis (particolare). Courtesy Archivio Kounellis

La collezione Farnesina | Tempo, storia, memoria

Questi temi attraversano e connettono come un fil rouge percorsi e pratiche dell’arte italiana dagli anni Sessanta a oggi e si ritrovano nelle opere di Paola Agosti, Daniela Comani, Alberto Garutti, Jannis Kounellis, Ugo Mulas ed Emiliano Ponzi

I temi del tempo, della storia e della memoria attraversano e connettono come un fil rouge percorsi e pratiche dell’arte italiana dagli anni Sessanta a oggi. Attorno a questi temi si sono costruite le narrazioni; si sono incrociate le visioni artistiche e le scelte critiche che hanno contribuito a creare un interscambio contraddittorio e fecondo tra modernità e storia, tra rivoluzione e mito, tra memoria e politica dell’esistente o del tempo presente. Già all’altezza cronologica della mostra «Identité italienne», tenutasi al Centre Pompidou nel 1981, Germano Celant immaginava il suo percorso di lettura dell’arte italiana dal 1959 alla contemporaneità, non appiattendo le opposizioni, a livello di immaginario visivo e di discorso critico, ma accumulandole per far emergere quello che considerava il «sistematico misconoscimento dell’inconscio culturale» dell’identità italiana. A partire da allora il discorso sull’identità italiana è stato al centro del dibattito, anche in relazione a narrazioni visive, letterarie e cinematografiche che hanno riflettuto esplicitamente sulla storia del nostro Paese, sui nodi irrisolti della nostra storia politica, sul processo di industrializzazione dagli anni del boom economico al presente, ma anche sulle geopolitiche dell’arte e sulle questioni identitarie come possibilità di autoaffermazione soggettiva o collettiva. Si può pertanto enucleare un ulteriore focus di lettura delle opere della Collezione Farnesina, dopo quelli già presentati nei precedenti numeri del Giornale dell’Arte, connettendo artisti e artiste di generazione diversa che a partire dal secondo Novecento a oggi si sono confrontati con i temi del tempo, della storia e della memoria. Artisti che hanno attraversato i territori e reimmaginato le geografie, che hanno esplorato o che stanno esplorando media e linguaggi diversi, dalla pittura all’installazione, dalla fotografia all’illustrazione.

Protagonista dell’Arte povera, Jannis Kounellis ha dichiarato in più occasioni la continuità tra i lavori pittorici dei primi anni Sessanta e la ricerca del periodo poverista, quando nel suo lavoro iniziano a fare la comparsa frammenti di statue, animali vivi, altri materiali organici e oggetti di uso quotidiano, ma carichi di storia e di significati antichi. Osservando che «la pittura è una mentalità che sopravvive dentro e fuori i dipinti», Kounellis supera la relazione tra pittura e quadro e considera la pittura un linguaggio che può indifferentemente relazionarsi con lo spazio, far uso di materiali e oggetti diversi, non dipinti ma reali. Ciascun oggetto e materiale, disposto nelle sue opere in sequenza, per accumulo o stratificazione, denota la necessità dell’artista di rivelare la sua visione critica e politica della storia, dove il passato è necessariamente una linfa vitale per esplorare il presente, immettendo il lavoro in una dimensione circolare, universale.

Tra i materiali, le loro diverse nature e consistenze si attiva un dialogo che fa emergere le loro polarità antinomiche: strutture metalliche rigide, fredde, inerti, sono poste in relazione alla sensibilità calda, mutevole di materiali organici come la lana, il carbone, i tessuti dei vestiti, gli animali vivi e i sacchi di juta. Da una parte il simbolo della condizione umana dell’epoca industriale, dall’altro il potenziale energetico della storia, evocazione di un universo primario, arcaico, mitico. Uno dei temi al centro della sua ricerca è quello del viaggio, inteso come condizione esistenziale, cui i sacchi di juta e altri elementi ricorrenti nelle opere dell’artista, rimandano. I sacchi, vuoti o riempiti di granaglie, sono quelli presenti in tutti i porti del Mediterraneo per trasportare le derrate alimentari. Sono legati a un’idea antica di commercio marittimo, di attraversamento dei territori, di viaggio e nomadismo che allo stesso modo richiama la condizione dell’uomo contemporaneo.

Attraverso una peculiare poetica e politica dello sguardo, il rapporto tra storia dell’arte e tempo presente, si vivifica e allo stesso modo si eterna nei ritratti fotografici di Ugo Mulas. Dopo la Biennale di Venezia del 1964, l’edizione che aveva visto trionfare la Pop art, Mulas compie un viaggio a New York e, grazie al gallerista Leo Castelli e al critico Alan Solomon, è introdotto nel giro di pittori, collezionisti e musicisti dell’avanguardia artistica, compiendo un’esperienza fondamentale per la sua ricerca artistica. In quella congiuntura di intensi scambi transatlantici, le fotografie di Mulas, confluite nella pubblicazione «New York: Arte e persone», data alle stampe da Longanesi nel 1967, contribuiscono ad alimentare il mito dell’arte americana nel nostro Paese. Entrare negli studi degli artisti permette a Mulas di penetrare nel profondo di nuove processualità artistiche, di mettere a fuoco rituali e mitologie del quotidiano per far emergere la tensione tra la raffigurazione dell’artista e il cerimoniale del personaggio.

«Quando fotografo un pittore, ha raccontato Mulas, spesso cerco una possibilità per uscir fuori da quella che è la foto di cronaca e cerco anche di evitare il normale ritratto, il bel ritratto, perché quello che mi interessa è dare un’idea del personaggio in rapporto al risultato del suo lavoro, cioè di capire quale dei suoi modi e atteggiamenti è decisivo rispetto al risultato finale». Oltre ai protagonisti dello scenario New-dada e Pop, in quel viaggio Mulas incontra Duchamp. E proprio nei ritratti di Duchamp è possibile cogliere la tensione mentale e comportamentale della ricerca dell’artista, ovvero di «un fare sganciato dal produrre» che Mulas immortala in gesti minimi nell’ambito domestico, in strada mentre Duchamp cammina, al MoMA tra le sue opere, oppure ritraendolo in poltrona mentre sta guardando una sua vecchia fotografia, dove il tempo della cronaca si sospende in quello della storia dell’arte.

Nella ricerca di Alberto Garutti il tempo dell’esistenza e dell’autobiografia si moltiplicano in infinite possibilità attraverso le dinamiche relazionali che si attivano tra l’opera e l’incontro con il pubblico, come avviene in «Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora», lastra di cemento in cui è inciso il titolo stesso dell’opera. A partire dal 2004 Garutti ha realizzato questo lavoro in più versioni e lo ha installato in vari spazi pubblici attivando, di volta in volta, una specifica relazione tra il sé e il mondo, tra la temporalità della propria esistenza e la memoria dei luoghi in cui si stratificano le storie. Alcuni esemplari sono stati infatti installati in spazi pubblici italiani e internazionali: dalla stazione di Milano Cadorna all’aeroporto di Milano Malpensa, da piazza Santa Maria Novella all’Istituto Italiano di Cultura di Copenaghen, solo per citarne alcuni.

Con i suoi interventi di arte pubblica, Garutti crea una costellazione di connessioni e di storie che si propagano oltre il tempo e lo spazio, facendo prendere a ciascun passante, che si trova a fruire di determinati spazi della città, coscienza dell’unicità e della magia del proprio vissuto in connessione con un’energia che travalica la contingenza e che si proietta verso spazi e tempi infiniti. Il concetto della dispersione diventa centrale a più livelli nella sua ricerca, anche in relazione a una pratica artistica che dematerializza il valore dell’oggetto in un processo di energie in trasformazione e che pone al centro del discorso l’esperienza individuale come possibilità di costruzione di un’identità sociale e collettiva.

Anche la ricerca di Daniela Comani ruota attorno ai temi dell’identità e del tempo. Un tempo inteso come spazio di relazione tra dato storico e memoria personale che l’artista ha esplorato lavorando sulla dimensione dell’archivio, con processi di manipolazione e appropriazione, per affrontare questioni legate agli stereotipi di genere e sociali. «It Was Me. Diary. 1900-1999» è un’opera realizzata in più formati, dalla dimensione installativa alla stampa digitale su tessuto, dall’audio-installazione al libro, all’app. I momenti topici della storia politica, sociale, culturale e sportiva internazionale del XX secolo scorrono condensati in un racconto diaristico di un anno bisestile, dove nello spazio di 366 giorni si succedono eventi raccontati da un io in prima persona.

Attraverso questi momenti, che si sono impressi nell’immaginario collettivo e sono resi visivamente nell’opera con un’estetica che riprende quella dei mezzi di comunicazione di massa, l’io narrante moltiplica le proprie identità e allo stesso modo cerca di posizionare la propria storia individuale nel flusso della storia mediante il ricordo. «Sono stata io, osserva Daniela Comani. Io penso: chi è stato e quando? E poi: dov’ero io allora? Dove sono, sempre, mentre la storia accade?». Altre domande affiorano dalla ricerca di Daniela Comani. Ad esempio: come potrebbe essere la storia della letteratura occidentale riscritta da una prospettiva di genere? O ancora, come affrontare il tema della violenza di genere attraverso un ribaltamento che porta la donna a essere la carnefice e non la vittima, in modo da riflettere sulle assurdità del femminicidio?

Sovvertire lo stereotipo è un atto necessario per riscattare la subalternità, per rivendicare processi di autoaffermazione, come molte artiste hanno fatto a partire dagli anni Settanta attraverso la loro militanza femminista strettamente connessa alla loro ricerca artistica. Si pensi a tal proposito al lavoro fotografico di Paola Agosti, figura di riferimento nella documentazione fotografica del movimento femminista in Italia, con le sue immagini iconiche che testimoniano manifestazioni e cortei in piazza, assemblee, rivendicazioni e lotte per i diritti della donna. Come ricorda lei stessa, il femminismo è stata un’esperienza umana e professionale che irruppe nella sua vita nel 1974, quando l’editore romano Savelli le commissionò un libro fotografico sul movimento femminista che sarà pubblicato nel 1976 con il titolo «Riprendiamoci la vita. Immagini del movimento delle donne».

L’indagine sulla condizione femminile rimane al centro della sua produzione anche negli anni successivi, con l’attenzione a tante realtà che costellano la penisola, dal mondo contadino a quello operaio, che Agosti ha potuto documentare attraverso la sua lunga collaborazione con la rivista «Noi donne», organo ufficiale dell’UDI (Unione donne in Italia). Proprio al lavoro della donna in fabbrica ha dedicato nel 1983 la raccolta «La donna è la macchina», che raccoglie scatti realizzati nei grandi stabilimenti italiani come la Olivetti, la Fiat, l’Indesit... Se il titolo evidenzia la condizione alienante del lavoro in fabbrica nella tangenza donna-macchina, lo spaccato che emerge dalle fotografie lascia affiorare l’orgoglio dell’emancipazione di una generazione di donne che ha potuto reimmaginare le storie e riscrivere nuove genealogie femminili.

In questo attraversamento di storie che raccontano con differenti modalità la cronaca del presente o una condizione esistenziale, che travalica il tempo storico, si giunge all’oggi, con il lavoro dell’illustratore Emiliano Ponzi. «Chronicles from the Red Zone» narra la centralità dell’Italia nella prima ondata della pandemia Covid19. Quando gli Stati Uniti stavano ancora guardando increduli a cosa stesse avvenendo in Cina e poi in Italia, in attesa di capire quali sarebbero stati gli esiti di una diffusione del virus, che presto si sarebbe rivelata globale, «The Washington Post» pubblica dapprima immagini choc, scattate alla fine del 2019 in sei metropoli della Cina, e successivamente affida a Emiliano Ponzi, illustratore per «La Repubblica», «New York Times», «New Yorker», «Le Monde», il compito di documentare il dramma psicologico e umano del lockdown italiano.

Come racconta l’artista, «questo lavoro è stato per gli americani una sorta di palla di cristallo: hanno visto con due settimane d’anticipo che cosa li aspettava». Con un linguaggio che riverbera di riferimenti che vanno dal fumetto alla cultura pop, dalla grafica pubblicitaria alla pittura di Hooper e Hockney, Ponzi racconta la drammatica condizione del distanziamento con immagini capaci di restituire pienamente il senso di paura, isolamento, sospensione e attesa che ha caratterizzato quei giorni, immagini e sensazioni che rimarranno impressi indelebilmente nella nostra memoria.

Lara Conte è docente di storia dell’arte contemporanea all’Università Roma Tre

La Collezione Farnesina
Alfabeti di Francesco Tedeschi
Paesaggi di Rica Cerbarano
Viaggio di Franco Fanelli
Corpo di Angela Vettese
Tempo, storia, memoria di Lara Conte
 

«Chronicles from the Red Zone» (2020) di Emiliano Ponzi. Cortesia dell’artista

«Torino, Fiat Mirafiori» (1983) di Paola Agosti. Cortesia dell’artista

«It Was Me. Diary. 1900-1999» (2002) di Daniela Comani. Courtesia dell’artista

«Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato fino a qui, ora» (2015) di Alberto Garutti. Cortesia dell’artista

«Marcel Duchamp, New York» (1965-67) di Ugo Mulas. Cortesia dell’Archivio Mulas

Lara Conte, 20 febbraio 2023 | © Riproduzione riservata

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