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«La colpa è di chi ha costruito male»

«La colpa è di chi ha costruito male»

Giuliana Calcani

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L’articolo dal titolo «I veri sciacalli del territorio», firmato da Giovanni Curatola (cfr. lo scorso numero, p. 10), entra nel delicato tema della ricostruzione nelle zone terremotate del Centro Italia, per estendere poi anche alle aree archeologiche devastate dall’Isis una riflessione sul senso e l’opportunità di voler a tutti i costi riportare l’immagine di monumenti e siti «come erano e dove erano». Il confronto sulle idee fa bene e stimolare il dibattito su questioni così importanti potrebbe aumentare il grado di consapevolezza nelle azioni, a condizione però che non si parta da una filosofia spicciola, incorniciata da un titolo denigratorio per i tanti che stanno lavorando con onestà, serietà e impegno, per far sopravvivere oggi e domani (auspicabilmente) rivivere, i territori colpiti dalla furia naturale e umana. Le carte geologiche dell’Italia parlano chiaro: sono pochissime le aree non considerate a rischio sismico, così come ben nota è la mappa dell’instabilità politica nell’area mediorientale.

Non nascondiamoci però dietro a un dito: la colpa di quello che è accaduto non è certo dei luoghi, ma di chi ha costruito male sia materialmente che politicamente, negli ultimi tempi. Se spostarsi fa la differenza tra la vita e la morte l’alternativa certo non si pone, ma decentrare di pochi chilometri, dare committenze ad artisti contemporanei piuttosto che a restauratori, che cosa garantisce? Il territorio non si abbandona, così come non si abbandonano le proprie tradizioni culturali, ma si tutelano e anzi si riscoprono, magari proprio in seguito allo shock subito. Perché non è uno slogan turistico, ma è reale che la capillare antropizzazione del nostro territorio ha reso l’Italia un «museo diffuso» e variegato, dove ai grandi centri fanno eco borghi minori, dove ai capolavori dell’arte si alternano le opere «di scuola» dei grandi maestri e anche i prodotti di quelli che a scuola non ci sono andati mai. L’identità dei luoghi non dipende solo dalla percentuale di arte e di architettura con la A maiuscola presente, come Giovanni Curatola suggerisce, bensì dalla riconoscibilità delle forme per chi quei luoghi li vive. Il profilo noto di chiesette anonime, di piazze che hanno riunito generazioni e generazioni fino a oggi, non a caso sono i capisaldi che le comunità locali rivorrebbero «uguali», perché rappresentano il «marchio di riconoscibilità» del territorio e perciò di loro stesse.

Saranno le persone del posto a riannodare dove serve il filo della memoria, a rendere lo stare di domani simile allo stare di ieri, a patto di non relegarle in «non luoghi», magari apprezzati dal palato fine degli esperti, ma non sentiti come propri dai residenti. La ricostruzione è auspicabile ed è auspicabile che sia frutto di un punto d’incontro tra l’aspirazione legittima delle popolazioni a restare, da un lato, e le risposte governative dall’altro. In mezzo ci siamo tutti noi, quella società civile che non si è tirata indietro e che può continuare a contribuire in modi diversi, anche semplicemente sostenendo le motivazioni di chi oggi può aspirare a vivere in sicurezza nel proprio territorio. Tecnologie, competenze ed esperienze qualificate le abbiamo, in tutti i campi. Si tratta di applicarle anche per arginare i profitti degli sciacalli veri. La ferita, materiale e morale, inferta dal terremoto così come dal fanatismo affarista dell’Isis si rimarginerà anche attraverso la riconquista delle forme perdute che, in entrambi i casi, sarà anche nostra responsabilità far durare o meno nel tempo.
 

Giuliana Calcani, 07 febbraio 2017 | © Riproduzione riservata

«La colpa è di chi ha costruito male» | Giuliana Calcani

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