Sono bastati 33 anni per far sì che Leigh Bowery (Melbourne,1961-Londra, 1994), artista, performer, «club kid», stilista, musicista e personalità televisiva, nonché icona del movimento drag e della comunità Lgbtqi+, scardinasse le regole della cultura popolare del tempo, ponendo le fondamenta per quella odierna. Il suo segreto? La capacità delle sue performance di «emozionare e inorridire», come scrive la giornalista Lauren Cochrane del «Guardian» nel 2018 in un articolo ispirato alla sua «dissoluta brillantezza», definendo Bowery come «arte moderna che cammina». Per il cantautore inglese Boy George (Barnehurst, 1961), amico e ammiratore del provocatorio artista australiano, «Bowery non smetteva mai di impressionare o rivoltare».
Fu la sua destrezza nell’uscire dagli schemi che permise ai dipinti, ai video e alle fotografie che lo ritraevano di riscrivere le sorti «dell’arte, della moda, e della cultura in senso lato», spiegano i curatori di «Leigh Bowery!», retrospettiva allestita alla Tate Modern dal 27 febbraio al 31 agosto. Del suo trasferimento nella capitale britannica Bowery disse, «ero tanto impaziente di conoscere il mondo, che me ne sono andato senza preavviso». La mostra, che traccia la sua transizione dalla nightlife della stessa Londra, dove nel 1985 fondò Taboo («uno spazio concepito per consentire a Bowery e ai suoi amici la libertà di esplorare la loro identità e trasformarsi»), ai riflettori teatrali, alla scena artistica e oltre, cattura il suo approccio istintivo, restituendone un ritratto «scandaloso e complesso».
Per Bowery, racconta il team curatoriale della retrospettiva, il corpo altro non era che «un’arma in eterno mutamento, capace di mettere in discussione le norme estetiche, i preconcetti associati alla sessualità e all’identità di genere». Concependo costumi e trucco come alternative alla scultura e pittura tradizionali, «ha messo alla prova i limiti del decoro, creando una nuova forma di performance art». Bowery si affermò nel panorama internazionale anche grazie ai numerosi, e stravaganti, scambi creativi, come quello con Nicola Rainbird, la collaboratrice che l’aiutò a creare alcuni dei suoi look più iconici, diventando poi sua moglie, o con il corsettista sudafricano Mr Pearl, o il fotografo Fergus Greer, i cui scatti ne immortalano il talento camaleonico. Rainbird e Margery King, rispettivamente presidente e consulente del Bowery Estate, hanno collaborato all’organizzazione della mostra insieme ai curatori Fiontán Moran e Jessica Baxter. Tra le tante vicende artistiche al cuore della breve ma influente carriera del leggendario performer, scomparso a causa di un’infezione da Hiv, spicca l’incontro con il pittore Lucian Freud (Berlino, 1922-Londra, 2011), di cui divenne musa e modello, posando per una serie di sconcertanti ritratti, molti dei quali esposti in questa occasione, che mostrano la sua abilità nel «vestire i panni di una creatura aliena», abbracciando la propria carne come «il più favoloso dei tessuti».
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Uno still da «Because We Must» (1989) di Charles Atlas. © Charles Atlas. Cortesia dell’artista e di Luhring Augustine, New York
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Lucien Freud, «Nude with Leg Up (Leigh Bowery)» (1992). © The Lucian Freud Archive. All Rights Reserved 2024