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Una veduta della mostra «Mémoires des corps» da Gasworks, Londra

Photo: Peter Otto

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Una veduta della mostra «Mémoires des corps» da Gasworks, Londra

Photo: Peter Otto

La prima personale pubblica a Londra di Marie-Claire Messouma Manlanbien

Da Gasworks sono esposte le opere dell’artista che ha rappresentato la Costa d’Avorio alla scorsa Biennale di Venezia

Francesco Sala

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Una decina di anni fa, al British Museum di Londra, prestarono dal Sudafrica un ciottolino di diaspro lungo meno di nove centimetri. Porta impresse sul fronte, disposte sullo stesso asse, due piccole cavità circolari. E poco più sotto un taglio orizzontale. Quel ciottolino è stato trovato in una caverna dove altro diaspro non c’è. Arriva da decine, forse centinaia di chilometri di distanza. In quella caverna, insieme al ciottolino, i resti di ominidi vissuti 3 milioni di anni fa.

I buchi e il taglio non sono il frutto di un’azione, sono dovuti al caso. È l’erosione naturale ad aver disegnato su quel pezzo di diaspro quella che a noi, oggi, sembra in modo incontrovertibile una faccia. Quella che, ed è su questo punto che gli archeologi dibattono, è possibile agli ominidi vissuti 3 milioni di anni fa sia sembrata una faccia. Qualcosa in cui si sono riconosciuti. Qualcosa di prezioso, tanto prezioso da essere conservato, portato via, forse scambiato, forse rubato.

A pochi chilometri dal British Museum, all’ombra dello stadio di cricket, c’è Gasworks e nelle sale di Gasworks la prima personale, «Mémoires des corps», in uno spazio pubblico a Londra di Marie-Claire Messouma Manlanbien (fino al 14 dicembre). Tutto nasce dai miti e dalle tradizioni della cultura akan, nella Costa d’Avorio, in cui l’artista affonda le proprie radici, una cultura le cui principali dinamiche sociali si basano sul ruolo della donna: donne maghe e mai streghe, custodi dei segreti della vita e del tempo. Tende realizzate con cascate di pietruzze dai poteri taumaturgici e minuscole ceramiche votive, volti, piccoli volti stilizzati come quello trovato in quella caverna del Sudafrica; vasi di offerte votive, carichi di boccioli di rosa e piccoli fasci di erbe medicinali che, se accese, liberano nel cielo preghiere antiche. E poi i tessuti dai colori esplosivi, nei quali ovaie stilizzate prendono delicate sembianze floreali che ricordano le arpilleras di Violeta Parra, il suo «Albero della Vita» comparso pochi anni fa alla Biennale di Venezia. Manlanbien affonda le mani in un passato senza tempo e lo affida a linguaggi ormai istituzionalizzati, scegliendo di camminare nel solco di una tradizione che dal secondo dopoguerra in poi ha segnato in modo marcato il lavoro di tante artiste, facendo dell’ago e del filo le armi per rivendicare la propria sfida al patriarcato: come negli arazzi di Clemen Parrocchetti prima, o nelle gloriose «Valquirías» di Joana Vasconcelos poi.

Si tratta forse di una scelta di comodo o addirittura di un metodo che finisce per reiterare stereotipi? Perché non avventurarsi su sentieri diversi e appoggiarsi a media differenti? Domande forse anche legittime, ma che si sciolgono nella meraviglia e nella poesia di ciò che vediamo, nella ricchezza e nella tenerezza di opere che raccontano chi siamo, chi siamo stati, chi saremo.

Una veduta della mostra «Mémoires des corps» da Gasworks, Londra. Photo: Peter Otto

Francesco Sala, 09 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

La prima personale pubblica a Londra di Marie-Claire Messouma Manlanbien | Francesco Sala

La prima personale pubblica a Londra di Marie-Claire Messouma Manlanbien | Francesco Sala