Antiche donne mutilate marciano sotto il ponte Begin di Tel Aviv, protestando per qualcosa. Una di loro sventola una torcia rosa mentre un’altra immortala il momento con un selfie. Davanti a loro, una donna acefala rivolge il suo moncherino al cielo notturno. La colonna sonora è un lamento collettivo, un grido di disperazione. Stiamo parlando di «Keening» (2024) dell’artista digitale Ruth Patir (nata nel 1984 a New York, ma cresciuta a Tel Aviv), l’unica opera della sua personale «(M)otherland» fruibile attraverso le vetrate del Padiglione israeliano rimasto chiuso alla Biennale di Venezia 2024.
Girato a pochi isolati dal museo (un tempo luogo di proteste per la revisione del sistema giudiziario e, dall’ottobre 2023, sede di proteste per il rilascio degli ostaggi e l’accordo per il cessate il fuoco), il video è divenuto metafora di un inconcludente viaggio fino a Venezia per poi tornare da dove è iniziato; il ritorno alle origini è un tema ricorrente nel progetto stesso. In apertura del padiglione veneziano di Patir, ora conclude la mostra al Tel Aviv Museum of Art.
Patir ha digitalizzato il calco di circa 50 statuette femminili, presumibilmente a scopo devozionale, risalenti al X secolo a.C., donne levantine di terracotta grandi come un palmo di mano. I seni esagerati potrebbero essere associati a dee della fertilità, oppure affidare loro un ruolo di protezione. Una figura in particolare, con i capelli tagliati e la frangetta, sembra davvero il doppelgänger di Patir dell’Età del Ferro.
L’antica statuetta apre ora «Ruth Patir: Motherland» (11 marzo-13 settembre), installazione a più video-episodi che utilizza tecnologie avanzate e che rappresenta il lavoro più autobiografico dell’artista fino ad ora. «Più le cose diventano personali, più diventano universali», afferma Patir a proposito della scelta di rivolgere la telecamera su se stessa. Le opere seguono in chiave comica il processo di congelamento degli ovuli dell’artista, durato tre anni, nonostante lei stessa non sia pienamente convinta di diventare madre dopo aver scoperto di essere portatrice di una mutazione del gene Brca, che aumenta la probabilità di cancro alle ovaie e al seno.
Animando donne antiche e attingendo al formato dei vlog utilizzato per parlare di trattamenti della fertilità, Patir fa crollare i modelli di femminilità del passato e del presente. «Una statuetta della fertilità entra in una clinica della fertilità», scrive nel catalogo Mira Lapidot, curatrice capo del Tel Aviv Museum of Art e cocuratrice, insieme a Tamar Margalit, della mostra di Patir.
I primi lavori esposti sono «Intake» (2024), in cui Patir recita la sua storia medica, e «Petach Tikva» (2024), una scena di sala d’attesa clinica in cui donne antiche e annoiate scorrono sui loro telefoni e guardano la televisione. Quest’ultimo inizia con una di loro che usa Tinder e scorre il dito a destra, in segno di interesse, sul profilo di «Ryan, 3700 a.C.», una statuetta equestre il cui profilo dice che è «sempre pronto a provare qualcosa di nuovo e a vivere avventure». L’opera presenta inoltre uno schermo televisivo sul quale scorre un video open-source che trasmette notizie in diretta per le donne della clinica e gli spettatori. «La realtà è costantemente all’interno del video e è qualcosa che le figure consumano attraverso lo schermo così come noi, al contempo, stiamo consumando ciò che sta accadendo attraverso uno schermo», dice Patir.
La stanza successiva è un’imitazione dell’appartamento di Patir, dalla carta da parati, al divano e al tappeto, e presenta il fulcro della mostra: «(M)otherland» (2024). Vicino, in una nicchia piastrellata molto simile al bagno di Patir, è proiettato un video con la procedura di prelievo degli ovociti che la stessa artista ha affrontato. In una sala adiacente sono invece allestite alcune statuette all’interno di cassetti che riprendono il modo in cui le stesse sono conservate presso l’Israel Antiquities Authority. Esse riprendono vita nell’ultima sala, dove è proiettato «Keening».
Se a Venezia il team della mostra voleva presentare queste opere a un pubblico internazionale in un periodo di guerra, polarizzazione e boicottaggio, a Tel Aviv, dove la realtà bellica è ineludibile, non sono necessarie avvertenze. «La piazza fuori dal museo equivale al cartellone affisso all’ingresso», dice Lapidot, riferendosi alla Piazza degli Ostaggi accanto al museo, un luogo di ritrovo per le famiglie degli ostaggi e per coloro che li sostengono sin dall’inizio del conflitto. Il cartellone a cui Lapidot si riferisce è quello che lei, Patir e Margalit hanno deciso di affiggere sulla vetrata del Padiglione israeliano: «L’artista e i curatori del padiglione israeliano apriranno la mostra quando sarà raggiunto un accordo per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi».
«[I video] sono così intricati e hanno molteplici sfumature e è proprio di questo che lei si nutre: del disordine della vita e del fatto che la vita è piena di contraddizioni», dice Margalit, curatrice del Centro per l’arte contemporanea di Tel Aviv. Il tentativo di impedire a Patir di esporre le sue opere e di renderla piuttosto portavoce del governo israeliano (a febbraio 2024, oltre 14.500 persone firmarono una lettera pubblicata da un gruppo noto come «Anga-Art Not Genocide Alliance» in cui si chiedeva l’esclusione di Israele dalla 60ma Biennale d’Arte di Venezia, Ndr) ha appiattito la capacità di cogliere tali sfumature. «Speriamo che ora il pubblico riesca a coglierle, qui».
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Uno still dal video «Petah-Tikva», 2024, di Ruth Patir. Cortesia dell’artista e della Braverman Gallery, Tel Aviv