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Davide Landoni
Leggi i suoi articoliUna giovane donna bianca, occidentale, immersa in un contesto orientaleggiante così profondo e pervasivo da cambiare la percezione che ha di sé, e che gli altri hanno di lei. Potrebbe essere la trama di «Lost in Translation», il film di Sofia Coppola del 2003, in cui Charlotte (Scarlett Johansson, diciassettenne) si ritrova sola a Tokyo, dove sviluppa un'intensa amicizia con Bob (Bill Murray). Invece, la ragazza in questione è Elisabeth Lederer e l'uomo con cui instaura un rapporto è Gustav Klimt. Non c'è alcuna sotto trama amorosa, come forse, chissà, esiste nel film. Anzi, lei si riferisce a lui chiamandolo «zio». Lo chiama così anche nel 1914, quando il pittore accetta di ritrarla. Col suo biancore nobile, immersa in un arazzo di riferimenti orientali. Ma il lavoro non è così semplice e si prolunga per oltre tre anni. «Passò mesi a fare disegni in varie pose» ricordava Elisabeth. «Lo zio [Klimt] imprecava e borbottava; era un vero spasso ascoltarlo. Più volte gettò via la matita dicendo che non si dovrebbero mai ritrarre persone a cui si è troppo legati». Il progetto avrebbe potuto protrarsi ancora più a lungo, se non fosse che, come racconta Elisabeth, sua madre perse la pazienza: «afferrò il quadro, lo caricò in macchina e lo portò via di forza». Ma perché l'erede di un'importante famiglia aristocratica viennese, che l'architetto Josef Hoffmann (1870-1856) definì «la donna meglio vestita di Vienna», ha tutta questa confidenza con un pittore schivo, quasi burbero, lontano dal suo ambiente?
I due si conoscono fin da quando Elisabeth è una bambina. Dal 1899, per la precisione, quando ha soli cinque anni e la madre, Serena, commissiona all'artista un ritratto. L'opera, oggi al Metropolitan Museum of Art di New York, chiarisce subito il rapporto di somiglianza tra madre e figlia, dagli occhi scuri e i lineamenti delicati quasi identici. Ma al contrario di quello di Elisabeth, il dipinto della madre la ritrae in un abito di seta bianco, in stile impero, che quasi si fonde con lo sfondo nebbioso. Al suo debutto alla decima mostra della Secessione viennese nel 1901, i critici soprannomino il ritratto «Sinfonia in bianco», riferendosi all'opera del pittore americano James McNeill Whistler (1834-1903), con cui effettivamente la tela di Klimt si scambia delle suggestioni. Il ritratto, quasi a grandezza naturale, viene ben accolto dalla critica e apre al pittore le porte dell'alta società. O almeno quelle di casa Lederer, con cui si instaura un rapporto ventennale. Serena, che negli anni accumulerà la più grande collezione al mondo di opere di Klimt, rappresentando per lui una fondamentale mecenate, stringe col pittore un rapporto quasi familiare. Non per questo è semplice convincerlo a ritrarre, anni dopo, la figlia Elisabeth; e, nel 1917, anche la madre, Charlotte Pulitzer, parente proprio dell'editore Joseph Pulitzer, fondatore del famoso premio giornalistico che porta il suo nome. Purtroppo quest'ultimo dipinto è andato perduto, insieme ad altri dieci della collezione, a causa delle confische naziste che colpirono i Lederer nel 1940.
Ma è proprio la Seconda Guerra Mondiale a segnare un'ulteriore svolta nel rapporto tra Elizabeth e Klimt, che passa dal chiamarlo «zio» a chiamarlo «papà». Mentre tutti i Lederer, ebrei, fuggono all'estero, Elizabeth, forte del suo matrimonio cristiano, sceglie di rimanere in Austria. Quando il loro unico figlio, August Anton Bachofen von Echt, muore a soli quattro anni, la coppia non regge la tragedia e si separa. La rottura del matrimonio rende la donna vulnerabile, con le sue origini che tornano a rappresentare un problema. Così, facendo leva sulla reputazione di Klimt come donnaiolo (quattordici figli e nessun matrimonio), Elisabeth dichiara che l'artista, totalmente estraneo al mondo ebraico, è in realtà suo padre. Serena, dall'Ungheria, conferma sotto giuramento che la figlia è effettivamente il risultato di una relazione adultera con Klimt. Il Dipartimento del Reich per la ricerca genealogica si lascia convincere. Elisabeth, ora per metà ariana, riesce a sfuggire alla deportazione in un campo di concentramento. Sfortunatamente, la donna non sopravvive alla guerra e non riuscirà mai a ricongiungersi con la madre. Se non idealmente, attraverso i due ritratti che di loro fece Klimt, affiancati in una mostra della Neue Galerie di New York del 2016.
Gustav Klimt, Serena Pulitzer Lederer (1899). Courtesy of the Metropolitan Museum of Art
Gustav Klimt, Porträt der Elisabeth Lederer (Portrait of Elisabeth Lederer)
Uno di fianco all'altro, le due opere sono molto diverse. Se già abbiamo parlato del ritratto di Serena, quello della figlia, realizzato quindici anni dopo, è frutto del lavoro di un artista maturo, che ha sviluppato uno stile personale. Il ritratto a figura intera rappresenta una giovane donna dai capelli scuri e dalla pelle chiara, vestita con un abito bianco, fluido e vaporoso, e una veste blu, fittamente decorata. In uno sfondo insolito sono raffigurate una serie di piccole figure cinesi vestite con abiti tradizionali, forse una sorta di arazzo, e un tappeto con motivi arancioni e rosa. La composizione è complessa, con una pioggia di ornamenti che avvolgono il soggetto. Tanto che la veste rasenta l'astrazione, il suo tessuto sembra fondersi con lo sfondo. Tra i vari motivi che lo decorano, si riconoscono in particolare due draghi azzurri che emergono da onde increspate. Un riferimento all'iconografia imperiale cinese, con cui Klimt ha dunque voluto alludere ai gradi quasi nobiliari della famiglia Lederer, la più ricca di Vienna dopo i Rothschild. Un tributo che, nonostante il pittore abbia inserito motivi orientali in altre opere, ha riservato solo ad Elisabeth.
Il 18 novembre 2025, a New York, dopo una contesa di venti minuti tra sei bidder, il dipinto è diventato la seconda opera più cara di sempre, la più preziosa tra quelle moderne. Con i 236,36 milioni di dollari necessari per aggiudicarsela, Sotheby's ha scritto un pezzo di storia del mercato dell'arte. Ma soprattutto della sua. Il ritratto è infatti la migliore aggiudicazione di sempre per la maison. Mai apparso prima sul mercato libero, il dipinto era stimato oltre 150 milioni di dollari. La sua vendita segna un debutto memorabile per la casa d'aste, per la prima volta in scena nella nuova sede del Breuer Building, ex sede del Whitney Museum. Un risultato clamoroso, che raddoppia con margine i 104,5 milioni di «Birch Forest», aggiudicato nel 2022 da Sotheby’s Londra e precedente record per il pittore. Salendo ancora, l'opera scavalca i 195 milioni di dollari di «Shot Sage Blue Marilyn» di Andy Warhol, blindando la seconda posizione assoluta nella storia delle aste. Rimane inarrivabile il «Salvator Mundi», attribuito a Leonardo da Vinci e aggiudicato per 450,3 milioni di dollari da Christie's nel 2017.
Il record inspessisce ulteriormente lo strato di storie e valori simbolici che il quadro porta con sé. Alla fine di «Lost in Translation», Bob sussurra qualcosa all'orecchio di Charlotte, poco prima di dirsi addio, lasciandola nel mezzo di una strada di Tokyo. Non sappiamo quale sia stato l'ultimo saluto tra Klimt ed Elisabeth, ma l'immagine che ci ha lasciato di lei si avvicina a quella di Sofia Coppola: una giovane donna immersa in un contesto orientale, che le ruota intorno mentre dentro di lei nuove consapevolezze si fanno avanti, suggerendole una nuova e brillante versione di sé.
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