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Alice Ongaro Sartori
Leggi i suoi articoliInafferrabile come un sogno svanito, la nebbia è un velo denso e impalpabile che avvolge il paesaggio e sfida ogni previsione. È spesso carica di connotazioni negative, perché ostacola i viaggi, porta incertezza e immobilità.
L’artista Nicola Baratto (1989) incontra questo fenomeno tra le pagine di un antico manoscritto alchemico, il Mutus Liber (1677), dove due alchimisti la raccolgono come un’essenza preziosa e la trasformano in rugiada. L’immagine, scoperta durante una ricerca d’archivio nella Bibliotheca Philosophica Hermetica di Amsterdam, accende una catena di connessioni. La rugiada diventa il punto di partenza di un’indagine sulle tecniche ancestrali di raccolta dell’acqua nelle terre aride. Seguendo queste tracce, la ricerca si sposta verso il Marocco, dove la Fondazione Dar Si Hmad ha sviluppato il più grande sistema di raccolta della nebbia al mondo. Qui, tra le montagne dell’Anti-Atlante e le regioni desertiche, l’acqua è una risorsa preziosa e sfuggente. Nel 2006, quando una crisi idrica colpì la zona con temperature superiori ai 45 gradi, le donne berbere percorsero fino a tre ore di cammino per riempire le loro giare. È in questo contesto che nasce il progetto visionario dell’antropologa Jamila Bargach: un’architettura fatta di reti capaci di trasformare la nebbia in acqua potabile. Ma quando, nel 2022, vi si reca Baratto per una ricerca sul campo si trova a Sidi Ifni, immerso in una tempesta di nebbia inattesa persino per ingegneri e climatologi locali. L’imprevedibilità della natura si intreccia così con l’ingegno umano, rivelando l’essenza mutevole di questi fenomeni atmosferici e delle strategie per intercettarli.

Uno still dal video «Atlas» di Nicola Baratto
«Tears of Fog» (fino al 30 aprile) nasce come contemplazione di una poetica e politica dell’acqua, come mediazione materica tra l’onirico e il reale, ma anche come una rete di possibilità in una dimensione incerta. Prima pensata come monografica e poi come collettiva, la mostra prende forma a Le18, riad nel cuore della medina di Marrakech, da anni spazio di riferimento per il dibattito artistico e politico e cha ha inaugurato il 30 gennaio durante la fiera 1-54. È prodotta da Landescape e curata da Leonardo Ruvolo, Francesca Masoero e Qanat. Riad, che in arabo significa «giardino», evoca l’immagine di un luogo al contempo chiuso e aperto, dove le distinzioni tra interno ed esterno, tra privato e collettivo, si dissolvono. All’interno del patio centrale lo sguardo viene subito catturato da un’installazione scultorea dell’artista marocchina Alia Belgsir e dalla video-installazione «Atlas» di Nicola Baratto, una pellicola 16mm trasferita su video digitale che alterna paesaggi notturni del monte Boutmezguida (Sidi Ifni). In queste immagini si intravedono i primi piani di gocce luminose intrappolate nel CloudFisher, un pannello verticale in tensione, le cui maglie, imperlate di nebbia, la catturano, trasformandola in acqua. Un atto tanto semplice quanto prodigioso: rendere visibile l’invisibile, raccoglierlo, trasformarlo.
Accanto a queste, nel patio, si trovano «Aphasia» dell’artista libanese Raymond Gemayel e «Istinzaf» di Khalid Bouaalam, un vaso di terracotta poggiato sul pavimento che si fa clessidra ad acqua, pronto a ricordarci la fragilità della risorsa più preziosa e la fugacità del tempo. Negli spazi adiacenti, una tavola warburghiana raccoglie le memorie fotografiche di Baratto, documentando la sua ricerca sul monte Boutmezguida, mentre le fotografie di Fahmi Shani rendono omaggio ai Sette Santi di Marrakech e riflettono le connessioni interculturali tra il Medio Oriente e il Nord Africa. Le opere in ceramica di Bouaalam e un vaso in vetro soffiato di Baratto, realizzato a Murano in collaborazione con la famiglia Tessaro, ci ricordano che la memoria si cristallizza in materia, proprio come l’acqua che nel suo perpetuo movimento raccoglie e modella la terra. In un gioco di trasparenze e consistenze, l’acqua si lascia cadere in gocce sulle opere su carta di Gemayel, mescolando grafite e inchiostro per renderla manifesta, mentre l’occhio sprofonda nell’oceano Atlantico nel video di Yasmine Benabdallah, riflettendo sul passato coloniale di Tangeri.

Una veduta della mostra «Tears of Fog», 2025, di Nicola Baratto. Foto: Salaheddine Elbouaaichi
Salendo al secondo piano, scopriamo altre fotografie analogiche di Baratto, primi piani di gocce di nebbia, e «La Sete» (2025), ritratto analogico di due cavalli che si abbeverano nel caldo estivo, alternate a «Glimpses of What I Have Seen» di Rim Mejdi: frammenti fotografici in bianco e nero del deserto e del più antico abitante del paesaggio, l’albero di palma. Infine, la zine «Not to Be Published: A Map of Jerusalem» di Heiba & Ammanah Lamara, Arwa Aburawa e Mohamedci, ci offre uno sguardo sulla Palestina, rivelando le analogie tra cartografie e meccanismi di dominazione coloniale.
Ogni opera in mostra, non solo esplora la fragilità dell’ambiente, ma anche i complessi rapporti di potere e di dominazione tra l’uomo e la natura, così come il precario equilibrio tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile. Scruta con delicatezza la vulnerabilità dei nostri ecosistemi, creando un momento di epifania collettiva sulle potenzialità della collaborazione nei momenti di fragilità e incertezza. La nebbia, spesso associata a disorientamento e mistero (persino in ambito neuroscientifico, dove il termine «brain fog» indica confusione mentale), qui viene rovesciata nel suo significato. Per Jamila Bargach è vitale: una presenza carica di spiriti e suggestioni, ma anche una risorsa concreta, capace di contrastare la desertificazione che minaccia il Nord Africa e il Mediterraneo. È questa ambivalenza che Nicola Baratto esplora nel suo lavoro, intrecciando ricerca e visione artistica. Nella sua poetica la rugiada e la nebbia si fondono in un racconto stratificato e surreale, in cui il linguaggio mitopoietico incontra il presente. Ma per realizzare simili visioni occorre essere sognatori concreti, come Jamila e l’artista che l’ha raccontata ci ricordano che il sogno e l’utopia non sono concetti distanti dalla realtà, ma pratiche attuabili, capaci di preservare il nostro rapporto con la vita. Le soluzioni si nascondono nel luogo più sfuggente e lattiginoso, come la nebbia, che ci esorta a scoprire nel transitorio una nuova prospettiva per il futuro.

Una veduta della mostra «Tears of Fog», 2025, di Nicola Baratto. Foto: Salaheddine Elbouaaichi