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Charles Jencks
Leggi i suoi articoliOggi, il museo continua a evolversi in direzioni diverse con lo stesso vigore con cui fluttua il mercato dell’arte. La crescita non è imprevedibile, ma è sicuramente divergente, come se curatori e direttori di museo fossero in competizione tanto quanto gli artisti nel tentare di anticipare lo spirito del tempo. I trend stilistici sono in opposizione dall’inizio del nuovo millennio: cubi bianchi neutri versus design legato al contesto, espressioni moniste contro altre pluraliste. Sono emersi nuovi contrasti e le forze sociali guidano ancora questa crescente disomogeneità, così come lo fa il mercato dell’arte da 60 miliardi di dollari.
Nel 2001 sintetizzai per il «Il Giornale dell’Arte» alcune di queste forze alla base dell’industria culturale, a cui si deve quel modello riconoscibile, l’edificio iconico con le sue megacollezioni, l’effetto Bilbao inseguito da tante città in crisi. Almeno per gli architetti si è trattato di un cambiamento positivo, che ha consentito loro di sperimentare con insolita libertà. Entro il 2005 quasi tutte le capitali globali, soprattutto lungo le rotte del petrolio verso la Cina, hanno cercato un’archistar per promuovere se stesse. I loro nomi si trovano su Wikipedia e sono altrettanto prevedibili quanto quelli dei 100 artisti che hanno dominato il mercato dell’arte mondiale. Avevo concluso la mia rassegna con la speranza che il Museo Spettacolare avrebbe affrontato le sue altrettanto spettacolari contraddizioni con un’architettura più complessa e che avrebbe assunto un ruolo più spirituale in un’epoca postcristiana dopo il collasso della Chiesa. Dopo tutto, il «museo cattedrale» è stato un cliché per più di cento anni e viviamo in un’era in cui la nostra nuova visione cosmica del mondo è diventata pubblica e conosciuta globalmente. Affrontare le realtà o sopprimerle? Gli architetti moderni dediti all’astrazione e al linguaggio universale fondato sulla tecnologia hanno in gran parte evitato domande di questo tipo. Continuano a proporre soluzioni generiche senza però essere immuni dall’effetto Bilbao. Il nuovo Whitney Museum di New York di Renzo Piano è un tipico esempio, neutrale nel suo tecnorealismo ma accattivante nel modo in cui si rappresenta nella città industriale lungo il fiume Hudson, i suoi scorci di grattacieli e le sue terrazze sull’High Line. La neutralità modernista è l’idea fissa dei minimalisti e il modo migliore per affrontare un pubblico agnostico, perciò non sorprende che domini ancora il design dei musei come il white cube o l’estetica industriale. Tuttavia, i visitatori più sofisticati e influenzati dai media potrebbero trovare questo scollegamento deludente se non persino rétro, una lamentela sentita riguardo al Whitney e a tanti altri lavori modernisti.
La Collezione Jumex di David Chipperfield a Città del Messico e il Pérez Museum di Herzog & de Meuron a Miami sono entrambi tentativi discreti e innovativi in questo filone e, come il «vernacolare industriale» di Piano, icone urbane. Tutti enfatizzano la stanchezza del museo attraverso fantastici scorci sul mondo esterno, affidando il ruolo iconico alla natura, alla città o all’arte ben allestita.
Maestri nel Minimalismo
I musei dei maestri del Minimalismo dimostrano ciò che gli architetti sanno fin da quando Le Corbusier celebrò la bellezza del purismo e la natura sacrale della semplificazione. Mies van der Rohe adorava il «quasi nulla» in architettura e la «presenza dell’assenza» è stata un obiettivo positivo per due movimenti recenti, il tardo Modernismo e la «Teologia negativa». Tutto ciò è evidente nei musei portoghesi di Álvaro Siza, nei lavori svizzeri di Peter Zumthor e, soprattutto, in Kazuyo Sejima con il Louvre Lens. Qui, lo sforzo alla «riduzione» caro all’architettura cistercense è portato a un nuovo livello di assenza, dove lo sfondo per l’arte è tutto fuorché scomparso, ma offre comunque riparo ed eccitazione.
David Chipperfield è conosciuto per il suo minimalismo; non sorprende dunque che il suo Neues Museum di Berlino (2009) abbia portato il postmodernismo verso una nuova partenza di quella che io ho definito la «Time City». Qui passato, presente e futuro sono mescolati creativamente, con diverse tecniche per le diverse parti. La Time City come concetto è vecchio quanto il riutilizzo di frammenti del passato in modi nuovi: è trasformazione attiva e non revival passivo. Anche il Museo di storia di Ningbo di Wang Shu fu ultimato nel 2009. Si tratta di un analogo collage di frammenti del passato, appropriato al ruolo dell’edificio, che è quello di riassumere la cultura locale, ora distrutta dal turbocapitalismo comunista. Amico di Ai Weiwei, che usa come lui il saccheggio della storia in modo ironico e politico, Wang vinse, primo cinese, il Pritzker nel 2012. Il suo museo introdusse d’un sol colpo una nuova peculiare bellezza, meno costosa dei moderni metodi di produzione prefabbricati e altrettanto rappresentativa. I volumi inclinati riflettono le vicine montagne, le piastrelle ondulate dei muri ricordano il mare e la sua importanza per Ningbo, e il passato è richiamato dalle persiane di bambù e dai milioni di mattoni di una tradizione distrutta fino all’oblio. Come il riutilizzo polemico che fa Weiwei della storia in un presente radicale questo diventa una curvatura paradossale del tempo: un Moca (museo di arte contemporanea) del passato, a sottolineare che la pratica della «spoliazione» ha una propria bellezza ed economia commemoratrici.
Weng chiama il suo gruppo Amateur Architecture Studio ed è suggestivo che un altro collettivo che, in modo fortemente polemico, lavora lontano dal potere e dal denaro, We Architech Anonymous (Waa) abbia realizzato un museo di fama mondiale, il Moca di Yinchuan, nella provincia autonoma del Ningxia Hui. Con le sue torsioni, le linee curve e i riferimenti simbolici al mare, è un più indiretto richiamo alla natura in generale (e simile al Museum of Modern Art di San Francisco). Forse in entrambi questi importanti musei cinesi il passato e un generalizzato contenuto spirituale sono più facilmente espressi nella periferia piuttosto che nel centro del potere.
Koolhaas il surrealista
Il CaixaForum di Madrid di Herzog & de Meuron, iniziato nel 2001 e concluso nel 2008, dimostra che ci vuole tempo e pazienza per ottenere un mix convincente di epoche e significati. Quel che inizia come riutilizzo meramente funzionale può concludersi in una costosa ma brillante opposizione di stati d’animo, come una cattedrale costruita nel corso dei secoli. Questo museo (più una Kunsthalle di arte contemporanea) è forse l’espressione finora più riuscita e musicale della Time City.
Koolhaas ha proseguito con altre stupefacenti espressioni sullo stesso genere. Il Garage di Mosca, un mix di un ristorante collettivista anni ’60 con una griglia di alte pareti che mostrano su tutti i lati il panorama di Gorky Park. Le pareti in policarbonato traslucido hanno un ruolo fondamentale: pannelli luccicanti, di dimensioni industriali, si innalzano o ricadono sui pellegrini dell’arte. Più convincente, perché più complessa, è la Fondazione Prada di Milano, ultimata come il Garage nel 2015. Un amalgama impressionante di blocchi verticali e orizzontali e di frammenti del passato. Una «casa infestata dai fantasmi» dipinta in foglia d’oro che accoglie gallerie dedicate a singoli artisti versus ambienti dedicati ai movimenti artistici versus una «great hall» riutilizzata dal passato (una reminiscenza del Beaubourg e del suo gigantesco spazio multiuso). Sovrapponendo finalità di utilizzo ed epoche diverse, Koolhaas il surrealista riprende il vecchio gioco del «cadavre exquis» (specialità surrealista appunto, che prevede che la creazione artistica sia l’opera di artefici che si susseguono ignorando il contributo degli altri partecipanti, Ndr). La ristrutturazione di Prada acquista così un aspetto sbalorditivo. È al tempo stesso il culmine di un film neorealista italiano e «Goldfinger», Arte povera e industria utopica. Alla fine, l’articolazione della differenza raggiunge la complessità della realtà contemporanea: il megamuseo di oggi è davvero un mix di pubblicità, speranza, passione e banale grandezza.
Metafore cosmiche
Molti «modernisti» hanno lasciato la strada ufficiale per adottare generi iconici di ogni tipo. I.M. Pei, negli ultimi tempi, ha cercato un intreccio senza soluzione di continuità tra passato e presente nei suoi musei in Cina e a Doha, ma quel che questi edifici guadagnano in garbo, lo perdono in personalità. Chipperfield invece ha trovato il complemento perfetto per la sua sensibilità minimalista nell’Hepworth Wakefield, un bell’esempio di museo governato dall’artista, dove le opere e il loro allestimento empatico diventano davvero ciò che ogni artista dovrebbe desiderare: la cornice perfetta al loro messaggio.
Artefici di due sorprendenti trasformazioni del Modernismo in un Postmodernismo guidato dall’identità sono Jean Nouvel e Norman Foster. Il primo aveva dato un accenno di questo futuro cambiamento nel 1987 con il suo Institut du Monde Arabe (Ima). Nel 2010 progettò il nuovo Museo Nazionale del Qatar, costruito con la «pietra locale del deserto», intersecando petali di acciaio ricoperti di gesso sabbioso. Come con il suo miliardario Louvre Abu Dhabi, che aprirà probabilmente a inizio 2017, qui il doppio codice del Postmodernismo è esplicito. Nouvel intende «riflettere un territorio protetto che appartiene al mondo arabo e a questa geografia», «offrire un’oasi di luce sotto una volta stellata di notte» (come il suo Ima ma qui con l’apposizione di motivi islamici). Nouvel vuole dare una «pioggia di luce» di 8mila stelle, che richiamano alla memoria le finestre traforate della mashrabiyya e i fasci di luce che illuminano i suk; vuole rievocare i tradizionali canali falaj e usare l’acqua per riflettere la luce che arriva dall’alto sul grande disco volante della cupola, con i suoi 610 metri di circonferenza. «La cupola bianca è il loro simbolo degli spazi sacri. E un museo è un luogo spirituale». Del resto, se le ipotesi degli antropologi sull’Africa sono esatte, la spiritualità è esistita per 70mila anni prima della religione organizzata. La transizione in corso dalle religioni a una spiritualità più generale è una tendenza globale che architetti e teologi non si sono lasciati sfuggire (Daniel Libeskind ne parla da quando progettò il Museo ebraico di Berlino negli anni Novanta). Una tendenza ben evidente del modo in cui il museo iconico utilizza le connessioni con la natura e il cosmo. Da quando Norman Foster ha iniziato a progettare icone come la cupola del Reichstag di Berlino, un terzo dei suoi progetti ha fatto ricorso a metafore allusive e riferimenti espliciti alla natura. Il suo Sheikh Zayed National Museum, vicino al Louvre Abu Dhabi di Nouvel, è volto al risparmio energetico con cinque ali in acciaio che forniscono la ventilazione naturale. Oltre a librarsi sopra il museo per catturare la brezza, le ali diventano un’esplicita commemorazione dello scomparso principe Zayed e del suo amore per la falconeria, così come le strutture ecologiche diventano metafore cosmiche.
Madre natura
La natura e l’universo non sono mai lontani dalla mente degli architetti quando progettano i loro grandi e costosi edifici. La ragione pìù immediata è che i megamusei non possono nascondersi e devono apparire come qualcosa di più di una semplice scatola vuota perciò, in un’epoca fortemente secolarizzata, il riferimento immediato sono la natura e la sostenibilità, le fedi più inattaccabili. Foster, Nouvel, Libeskind e le altre archistar sono consapevoli di questo fatto così come gli «artiststar», ma sono anche positivamente ispirati dalle strutture ondulate e dai frattali, e da qualsiasi forma di autorganizzazione che emerga dal cosmo. Questo perenne amore per le forme naturali si concretizza in architettura perché le sue strutture e i suoi dettagli derivano dalle leggi della natura, sono biomimetiche fin dalla nascita. Quindi, nel momento in cui i clienti sono confusi, la società non sa che aspetto dovrebbe avere un edificio, le religioni hanno perso la loro credibilità e l’era della fama mediatica è dominante, l’unica salvezza rimasta è Madre Natura. Questa, in breve, è la ragione per cui il museo contemporaneo oggi assomiglia alla «cattedrale cosmica». Con una differenza. Il linguaggio figurato dev’essere anch’esso allusivo, suggerito, connotativo perché non esiste una religione globale o un’ideologia equivalente a sostegno di un’iconografia esplicita. Per questo la maggior parte dei musei simbolo a partire dal 2000 sono «cattedrali criptiche» che diffondono la loro spiritualità attraverso metafore che possono soltanto suggerire la natura. La Kunsthaus di Peter Cook e Colin Fournier a Graz è un corpo fluttuante con molti occhi o appendici che ondeggiano nella luce del Nord, un «alieno amico». Il Musée des Confluences di Lione di Coop Himmelb(l)au non è solo confluenza di due fiumi e movimento, ma è «nuvola» e «cristallo» e «strati geologici» tutti in lotta all’interno di un altro amico alieno. Il Crystal Bridges Museum di Moshe Safdie in Arkansas, come annuncia il nome, è un’altra metafora del cristallo (probabilmente l’icona più condivisa nell’architettura di oggi), qui mixato con similitudini organiche e fluide intorno a ruscelli e laghetti. Le bianche ondulazioni della nuova espansione dello SfMoMA di Snøhetta richiamano «la nebbia e la pioggerellina» del Pacifico, anche le increspature e le fessure della facciata potrebbero piuttosto suggerire bianche scogliere spaccate da strati orizzontali. L’architettura è naturalmente portata alla metafora geologica, una tendenza rafforzata dai sermoni di John Ruskin sulla sua rilevanza religiosa per l’uomo. Forse il luogo di maggior concentrazione di metafore in lotta tra loro è la Fondation Louis Vuitton a Parigi di Frank Gehry, erede diretta dell’«effetto Bilbao» dello stesso architetto. Qui Gehry utilizza nuovamente la grammatica fluida delle intersezioni, con il vetro trasparente che ha preso il posto del titanio. Queste forme curve richiamano le conchiglie della Sydney Opera House (le conchiglie sono ottime forme strutturali) così come le vele e gli spinnaker, immagini da sempre care a Gehry, grande amante del mare. Visto in pianta o dall’alto, è evidente l’integrazione tra blocchi funzionali ed elementi trasparenti e il contrasto tra i cubi minimali bianchi e neri e la forma libera delle vele. Guardando l’edificio dai boschi, è anche chiaro che la creazione eruttiva di Gehry si torce leggermente verso l’alto, che questi fluttuanti schegge di vetro, con le loro pieghe tettoniche, si muovono come un animale pigro, via dal traffico della strada. Il corpo potrebbe non essere considerato una metafora comune nelle icone contemporanee quanto i cristalli e gli strati geologici, ma volti, braccia, natiche e seni sono stati suggeriti fin dall’epoca della cappella di Ronchamp di Le Corbusier, la prima grande icona postmoderna nel 1955.
Ci sarebbe molto molto da dire in favore dell’ultima fase stilistica di Gehry e contro lo spreco di spazio scultoreo sotto le vele di vetro. Il punto più importante è però il modo in cui l’edificio rappresenta l’evoluzione generale dei più recenti musei verso la «cattedrale cosmica» che viene suggerita ma non ancora nominata esplicitamente. Si tratta di un «monumento al significato sconosciuto», di un tipo che non può esprimere la sua missione spirituale ma, con la sua potenza e denaro, non può fare a meno di suggerirla. Proprio come de Chirico, un secolo fa, disse di aver dipinto «l’enigma», forse, come tanta parte dell’arte contemporanea, è l’enigmatico significante che emerge con maggior forza.