Al di là della loro apparenza innocente, c’è sempre qualcosa di lievemente inaspettato e, a tratti, apertamente sconcertante nelle fotografie dell’olandese Rineke Dijkstra (Sittard, 1959). Come se la vera quadra all’interpretazione dei suoi scatti e filmati, ritraenti persone di diverse provenienze ed età, sebbene perlopiù colte nel fiore dell’adolescenza o nelle fasi antecedenti o immediatamente successive all’adolescenza, stesse proprio in quei dettagli che sfuggono al primo impatto. Un sorriso goffo, forzato o accigliato. Una posa che cozza con l’espressione sul volto dei suoi soggetti, rivelandone l’insicurezza. Uno sguardo o troppo penetrante, e per questo quasi irreale, o, al contrario, del tutto assente. Sono tutti questi elementi che caratterizzano lo stato di transitorietà emotiva, psicologica e fisiologica al fulcro dell’esperienza umana, come Dijkstra ci svela in «Still. Moving», nuova personale dell’artista nella Berlinische Galerie fino al 2 febbraio 2025.
Tra le otto serie esposte in mostra, che raccoglie circa 80 immagini sviluppate dagli anni Novanta ad oggi, spiccano i suoi «Beach Portraits», pungente racconto della goffagine e fragilità della pubertà; «Almerisa» e «Olivier (The French Foreign Legion)», ritratti pluriennali della metamorfosi di una rifugiata bosniaca e di un adolescente prossimo ad arruolarsi nella legione straniera francese; e i rivelatori «Bullfighters», che ribaltano lo stereotipo di mascolinità rude tradizionalmente associata ai toreri per mostrarli in tutta la loro inascoltata inquietudine. Oltre a esemplificare come ci presentiamo al mondo, queste immagini parlano di «come la gente si comporta di fronte a una fotocamera», spiegano gli organizzatori.
Il filo conduttore della mostra è un senso di inadeguatezza che, per quanto non trascurabile da chi osserva le fotografie di Dijkstra, non è fine a sé stesso né destinato a pregiudicare le esperienze di coloro che le abitano per sempre. Al contrario, il leggero fastidio, imbarazzo o sgomento provato quando ci si focalizza sui lavori dell’artista olandese, e ci si riconosce nelle forzature e debolezze rappresentate, è l’ennesima prova di come, in un modo o nell’altro, l’eterna «transizione» al centro delle sue opere ci accomuni tutti, avvicinandoci al contempo alla sua ricerca artistica, ai volti da lei immortalati.