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Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoli«Ci serve una barca più grossa». La battuta, pronunciata quasi distrattamente dal capo della polizia Martin Brody, più o meno a metà de «Lo squalo» (1975), improvvisata sul set, è diventata una delle frasi più riconoscibili della storia del cinema, nonché un proverbiale modo di dire per indicare problemi più grandi del previsto. A cinquant’anni dall’uscita del film, titolo originale «Jaws», con cui Steven Spielberg ha trasformato un racconto di paura in un cambio strutturale del linguaggio cinematografico e dell’industria hollywoodiana, l’opera viene omaggiata con una grande mostra museale e un’asta di memorabilia cinematografici.
Quando Steven Spielberg gira Jaws, ha ventisei anni e un controllo solo parziale su una produzione segnata da problemi tecnici, ritardi e tensioni. Lo squalo meccanico non funziona come previsto, le riprese in mare aperto complicano ogni scena, il budget cresce. Ma è proprio da questi limiti che nasce la novità del film: l’orrore non viene mostrato, ma costruito attraverso montaggio, suono e attesa. La colonna sonora di John Williams, ridotta a poche note ossessive, diventa un dispositivo narrativo; la macchina da presa lavora sul punto di vista dello spettatore; il «mostro» resta assente per gran parte del film, ma onnipresente nella percezione. E c’è di più, «Jaws» non ha rappresentato solo un’innovazione sul piano estetico, ha ridefinito il modello di distribuzione, puntando su un’uscita estiva massiccia e su una promozione coordinata su scala nazionale. Il successo commerciale ha trasforma il film in un precedente estetico e commerciale, sancendo la nascita del blockbuster come strategia.
Illustrazione concettuale dello scenografo Joe Alves, Courtesy Universal Studios Licensing LLC
Questa complessità produttiva e storica è al centro di «Jaws: The Exhibition», la grande mostra che l’Academy Museum of Motion Pictures di Los Angeles dedica al film fino al 26 luglio 2026, negli spazi della Marilyn and Jeffrey Katzenberg Gallery. È la prima volta che l’istituzione dedica un’esposizione monografica a un singolo titolo, segnando un passaggio importante nella musealizzazione del cinema americano del secondo Novecento. Il percorso riunisce oltre 200 materiali originali provenienti dagli archivi della Academy, di Steven Spielberg e di Universal Pictures: sceneggiature annotate, fotografie di produzione, storyboard, modelli e componenti dello squalo meccanico, costumi, oggetti di scena e strumenti tecnici. Il percorso non segue una logica celebrativa, ma analitica: Jaws viene letto come sistema produttivo, come laboratorio di soluzioni narrative e come punto di svolta nella relazione tra cinema, pubblico e mercato. Particolare attenzione è riservata agli aspetti tecnici e percettivi del film: dal celebre «dolly zoom», utilizzato per visualizzare il terrore di Brody, alle scelte di montaggio imposte dai limiti degli effetti speciali, al ruolo del suono come elemento strutturale della suspense.
Un’immagine del film
Un’immagine della mostra
E mentre il museo lavora sulla conservazione e sull’interpretazione pubblica del film, alcuni oggetti originali entrano nel circuito del collezionismo. Alcuni lotti legati a «Jaws» saranno in vendita nella Propstore Spring Auction 2026, in programma la prossima primavera, con sessioni dal vivo a Los Angeles e online, secondo il formato abituale della casa d’aste specializzata in memorabilia cinematografici. Il lotto principale è un W.W. Greener Harpoon Rifle Mark II, il fucile lancia-arpioni utilizzato nel film, completo di custodia originale, con una stima compresa tra 250.000 e 500.000 dollari. A questo si affianca una canna da pesca Fenwick con mulinello, anch’essa identificata come oggetto effettivamente usato sul set, stimata tra 75.000 e 150.000 dollari. Entrambi i pezzi sono stati sottoposti a processi di autenticazione e screen-matching, che ne certificano l’impiego durante le riprese. Si tratta di oggetti funzionali, non pensati per durare né per essere conservati, nati in un’epoca in cui la tutela del patrimonio cinematografico non era una priorità. La loro rarità non è quindi solo legata al film, ma anche alla fragilità stessa delle pratiche produttive degli anni Settanta.
La coincidenza tra mostra e asta restituisce una fotografia nitida del cinema come patrimonio culturale. Da un lato, l’istituzione museale costruisce un racconto critico, accessibile e documentato, che restituisce complessità storica e tecnica. Dall’altro, il mercato assegna un valore economico a singoli oggetti, isolandoli come reliquie materiali di un immaginario condiviso. Il film che ha ridefinito il modo di fare cinema continua a produrre valore, simbolico ed economico, proprio perché il suo impatto non è confinato alla memoria collettiva, ma si riflette ancora oggi nelle pratiche di conservazione, studio e collezionismo.
Il regista Steven Spielberg durante la produzione di Lo squalo (1975), Courtesy Universal Studios Licensing LLC.
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