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Il Padiglione della Turchia «Emotional Reflections: The Soul of Seven Horizons» (particolare)

© Halise Karakaya

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Il Padiglione della Turchia «Emotional Reflections: The Soul of Seven Horizons» (particolare)

© Halise Karakaya

London Design Biennale, un atlante poetico di possibilità

A Somerset House la quinta edizione della mostra presenta, dal 5 al 29 giugno, oltre 40 padiglioni in rappresentanza di nazioni, accademie e istituzioni

Germano D’Acquisto

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«Il designer è un progettista con il senso della realtà», scriveva Bruno Munari, che di superfici se ne intendeva, soprattutto quando diventano alfabeti, giochi, strategie visive. Alla London Design Biennale 2025, aperta dal 5 al 29 giugno nei chiostri neoclassici di Somerset House, questa realtà prende forme a volte effimere, altre materiali, spesso dichiaratamente radicali. 

Il tema di quest’anno, «Surface Reflections», sembra un invito alla leggerezza, ma in realtà è decisamente molto di più. È soprattutto un’esortazione a osservare ciò che scorre in superficie, ma anche ciò che filtra, s’insinua e resta. A condurci dentro questo complesso viaggio, il direttore artistico Samuel Ross, artista, designer, direttore creativo e fondatore di A-COLD-WALL*, che al rigore architettonico del minimalismo tipicamente british ha sempre preferito le crepe, le tensioni urbane, il rumore di fondo. Il suo sguardo è insieme strutturale e politico. «Le superfici registrano: sono dispositivi sensibili», racconta Ross. E in effetti Somerset House si trasforma in un sismografo del presente, dove le superfici in questione diventano pelle, schermo, argilla, organismo. Ogni padiglione, ce ne sono più di 40 in rappresentanza di nazioni, accademie e istituzioni, è una sorta di finestra su un altrove. Ma l’altrove, a ben guardare, siamo noi: le nostre paure, le nostre mitologie, le nostre ambizioni. 

Il Padiglione argentino, ad esempio, rielabora il paesaggio andino in chiave sensoriale e immersiva: una stanza semioscurata dove il suono è terra, la luce è vento, la materia è vibrazione. Più che una narrazione geografica, una sinestesia. La Nigeria, invece, decostruisce l’idea stessa di unità africana proponendo un’estetica fatta di corpi, gesti, colori e materiali in dialogo fra loro. Un’affermazione identitaria che rifiuta l’omologazione. Il Perù commuove con un’installazione di parrucche realizzate da donne quechua usando i propri capelli: una pratica intima, ancestrale, che diventa racconto collettivo, gesto poetico, dispositivo di resistenza. E poi c’è la Polonia, che attraverso un mobile ligneo articolato, disegnato da un maestro artigiano, evoca l’attesa, il tempo sospeso, il silenzio come forma di pensiero. Ma la superficie, qui, non è solo materia visibile: è anche dato simbolico, linguaggio, architettura delle emozioni. L’artista londinese Rachel Botsman parte da un diagramma societario del 1855 per costruire una riflessione visiva sulle relazioni di potere. L’Oman, con il progetto «Memory Grid», archivia antichi vasi in una struttura traslucida e interattiva, dove ogni contenitore è nodo emotivo, memoria concreta, architettura affettiva. Malta, con un’installazione performativa, immagina un rituale funebre contemporaneo: un passaggio tra mondi, dove la morte non è fine ma trasmissione. Il designer tedesco Dieter Rams ha detto che «un buon design è sempre onesto». Ecco, quello che si incontra in questa biennale, pur tra estetiche spettacolari e forme sperimentali, sembra sinceramente coinvolto nella lettura del presente. Non c’è feticismo dell’oggetto: c’è piuttosto un desiderio condiviso di interrogare, porre domande, disinnescare automatismi. 

Il design, qui, è strumento di connessione, di ascolto, di scoperta. Spesso anche di guarigione. Una sorta di balsamo. Per chi cerca uno sguardo verso il futuro, «Eureka», la sezione dedicata al design accademico e sperimentale, riunisce università e collettivi che lavorano ai margini tra tecnologia, sostenibilità e biopoesia: c’è chi progetta muri di biocemento coltivabile, chi lavora su architetture biodegradabili, chi esplora il potere narrativo degli oggetti. Il King’s College (già, perché ha un padiglione tutto suo) allestisce una Wunderkammer postindustriale, una camera delle meraviglie aggiornata alla crisi ecologica, dove il design è anche meraviglia, narrazione, linguaggio.

Insomma, la London Design Biennale non è solo un’esposizione faraonica. È un palinsesto di domande, un campo di forze, un atlante poetico di possibilità. E ogni superficie riflette anche noi: i nostri limiti, i nostri sogni, i nostri dispositivi. Basta avere voglia di guardare. Con occhi aperti e mani pronte.

Un render del Padiglione del Giappone, «Paper Clouds. Materiality in Empty Space». Copyright Sekisui House - Kuma Lab

Uzbek Design «The Once and Future Garden». © Prepared by Naaw

Germano D’Acquisto, 05 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

London Design Biennale, un atlante poetico di possibilità | Germano D’Acquisto

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