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Una mostra collettiva nello spazio newyorkese esplora la materia come linguaggio sensibile e traccia dell’esperienza umana
- Redazione
- 08 maggio 2025
- 00’minuti di lettura


Dettaglio dell'installazione di Alison Knowles, «Found Gloves In Line», 2018
Courtesy James Fuentes
Materia Viva alla James Fuentes Gallery
Una mostra collettiva nello spazio newyorkese esplora la materia come linguaggio sensibile e traccia dell’esperienza umana
- Redazione
- 08 maggio 2025
- 00’minuti di lettura
Redazione
Leggi i suoi articoliDal 9 maggio al 14 giugno, la James Fuentes Gallery al 52 di White Street, a New York, presenta una vibrante mostra collettiva che celebra la materialità dell’arte e la sua capacità di riflettere, trasformare e rispecchiare l’esperienza umana. Riunendo tredici artisti di generazioni, linguaggi e sensibilità differenti, da figure storiche come Alison Knowles e Richard Nonas, a voci contemporanee come Ian Swordy e Keegan Monaghan, la mostra esplora la dimensione tattile e poetica della forma fisica. La selezione delle opere spazia da sculture intagliate e assemblaggi a dipinti astratti, paesaggi e installazioni, molte delle quali ricavate da materiali trovati o industriali. Questo insieme eclettico si anima di un filo conduttore: l’attenzione al processo, alla trasformazione della materia e alla memoria impressa negli oggetti. Alison Knowles, pioniera dell’arte partecipativa e figura chiave del movimento Fluxus, espone «Found Gloves In Line» (2018), una scultura composta da oggetti trovati che si fa poema visivo e linea del tempo sospesa. Il suo approccio, dove arte e vita si fondono, fa eco alla ricerca antropologica di Richard Nonas, le cui sculture minimali in pietra e metallo evocano ritualità e tracce umane del passato.
Carol Bove destruttura l’estetica minimalista con le sue «sculture collage» come «Recipe» (2021), in cui l’acciaio si piega in forme fluide e sensuali, sovvertendo la rigidità del materiale. Un’idea simile di contrasto tra materia e gesto è evidente nelle sculture in marmo di Ian Swordy, come «Venus with Wings» (2025), che esprimono una fisicità performativa. Lonnie Holley, artista e musicista, lavora con materiali di scarto e memorie ancestrali, trasformando oggetti abbandonati in simboli di rinascita e resistenza spirituale. La sua pratica si ricollega a quella di Kikuo Saito, che trasporta l’energia del teatro in campi pittorici astratti, e a Pat Lipsky, le cui superfici «colorfield» pulsano di vibrazione gestuale e rigore compositivo. La pittura come testimonianza del tempo e dello spazio è centrale anche nell’opera di Jessica Dickinson, che costruisce e distrugge le superfici in lunghi processi meditativi, e di Jonathan Allmaier, il cui metodo parte dalla creazione stessa dei pigmenti per riflettere sull’identità fisica del dipinto. Keegan Monaghan gioca invece con la riconoscibilità dell’immagine, dissolvendo oggetti familiari in prospettive ambigue, mentre John McAllister, con le sue vedute paesaggistiche fosforescenti, interroga la ciclicità naturale e il tempo umano. A chiudere il percorso è «Untitled» (fine anni ’70) di Geoffrey Holder, un paesaggio tropicale intriso di teatralità e memoria, che fonde mito e natura in una composizione sospesa. Insieme, queste opere non parlano solo di materiali, ma di visioni, di esperienze incarnate, di forze interiori. In un mondo segnato da incertezza e mutamento, questa mostra invita a toccare, vedere e sentire l’arte come parte viva della realtà.