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Veduta della mostra «Giovanni Battista Moroni (1521-1580). Il ritratto del suo tempo» alle Gallerie d’Italia di Milano. Foto: Roberto Serra

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Veduta della mostra «Giovanni Battista Moroni (1521-1580). Il ritratto del suo tempo» alle Gallerie d’Italia di Milano. Foto: Roberto Serra

Moroni, il più grande ritrattista europeo

Alle Gallerie d’Italia di Milano un crescendo di emozioni per una mostra imperdibile raccontata dallo storico e critico d’arte Davide Dotti

Davide Dotti

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Ebbene sì: i curatori Simone Facchinetti e Arturo Galansino sono proprio riusciti a convincerci che Moroni è stato il più grande ritrattista non sono italiano, ma io credo anche europeo, della seconda metà del XVI secolo. L’imperdibile mostra «Giovanni Battista Moroni (1521-1580). Il ritratto del suo tempo», allestita con la consueta eleganza alle Gallerie d’Italia di Milano fino al primo aprile, è il sigillo che conclude una triade di esposizioni monografiche, a dire il vero anche fin troppo ravvicinate nel tempo (Bergamo, Museo Adriano Bernareggi, 2005; Londra, Royal Academy of Arts, 2014; New York, Frick Collection, 2019), dedicate al grande pittore bergamasco che, come nessun altro della sua epoca, seppe eternare nei suoi capolavori i volti, gli sguardi, ma soprattutto i temperamenti di nobili, letterati, uomini politici, militari, prelati e anche esponenti della working class lombarda del secondo Cinquecento (il celebre sarto, giunto eccezionalmente in piazza della Scala dalla National Gallery di Londra), regalandoci un superbo spaccato della società a lui contemporanea.

Incentrata sul tema del ritratto e articolata in nove sezioni tematiche, la rassegna milanese è la più completa che sia mai stata finora realizzata (parliamo di oltre 100 opere, non solo di Moroni ma anche di artisti a lui coevi quali Lotto, Moretto, Savoldo, Mor, Tiziano, Veronese e Tintoretto provenienti sia da musei internazionali quali il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Louvre, il Prado, la National Gallery of Art di Washington, sia da collezioni private), e prende le mosse dalle celebrazioni di «Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023», suggellando l’impegno di Intesa Sanpaolo nella valorizzazione del patrimonio artistico dei due centri lombardi che nel XVI secolo, sotto la Repubblica di Venezia, vissero un momento aureo della loro civiltà artistica.

L’avvincente percorso espositivo inizia con il dialogo tra maestro e allievo sul tema sacro: Moroni, infatti, probabilmente già sul finire degli anni Trenta approda nella bottega di Moretto, all’epoca il più affermato e richiesto pittore bresciano di cui Vasari apprezzava la capacità di «imitare le cose naturali», soprattutto le teste e le stoffe, dopo essere stato folgorato dalla «Madonna con il Bambino in trono tra i santi» che il Bonvicino aveva licenziato per la Chiesa di Sant’Andrea Apostolo di Bergamo intorno al 1536-37. In questi anni di formazione il giovane artista orobico copia diligentemente su un prezioso taccuino di disegni conservato nei Musei Civici di Brescia le poderose figure di santi che il Moretto dispiega nelle sue monumentali macchine d’altare, collabora quasi certamente con il suo maestro nell’esecuzione di alcune pale (argomento, questo, meritevole di ulteriori approfondimenti), ed esegue libere interpretazioni di modelli aulici del primo rinascimento di Giovanni Bellini, Andrea Solario, Lorenzo Lotto e Albrecht Dürer.

In sostanza, Moroni sta plasmando un linguaggio figurativo che risponda alla nuova sensibilità culturale ed estetica imposta dal Concilio di Trento. Coincidenza volle che l’affermazione pubblica del pittore di Albino avvenne proprio nella città dei principi-vescovi nel 1551, in occasione della seconda sessione del concilio ecumenico indetta da papa Giulio III: in quell’anno, infatti, ricevette i pagamenti per la «Madonna con il Bambino in gloria e i santi Ambrogio, Gregorio, Gerolamo, Agostino e Giovanni Evangelista», collocata sull’altare dalla corporazione dei Legali e dei Dottori nella Basilica di Santa Maria Maggiore.

In parallelo, all’incirca dalla metà del quinto decennio, Moroni inizia a sperimentare il genere pittorico che lo consacrerà a livello internazionale, mettendo d’accordo schiere di storici dell’arte, da Burckhardt a Berenson, da Longhi a Mina Gregori: quello del ritratto, che gli permette di spingere al massimo, senza temere censure, il pedale del naturalismo che è insito nella sua cultura figurativa di marca lombarda, e di superare i suoi modelli di riferimento, Moretto in primis, ma anche Lotto e Tiziano, per la pungente indagine psicologica che fa emergere con formidabile vitalità le più sottili sfumature caratteriali dei suoi facoltosi committenti.

In mostra ci si imbatte in una sequenza mozzafiato di capolavori che vanno dal «Ritratto di M.A. Savelli» del Museu Gulbenkian di Lisbona, uno dei primi numeri del suo catalogo, talmente morettesco da essere stato creduto del Bonvicino da Berenson, al «Ritratto di cavaliere» del Prado, dove dimostra di aver appreso alla perfezione dal suo maestro l’arte di «contrafare [...] velluti, damaschi, altri drappi di tutte le sorti» (Vasari), fino al «Ritratto di capitano bergamasco» caratterizzato da una sorprendente immediatezza e da quel fondo color grigio chiaro, lambito da un leggero fascio di luce diagonale precaravaggesco, che sarà una delle cifre distintive della sua nobile arte.

Sala dopo sala è un crescendo di emozioni: il percorso prosegue con la sezione «Moroni a Trento» (dove troviamo suggestivi paralleli con lavori di Tiziano, allo statico «Ritratto di Giulio Romano» del cadorino è affiancato il dinamico «Ritratto di Alessandro Vittoria» del bergamasco, che sprizza vita ed energia, mentre a fianco ci si imbatte nel «Ritratto di Michiel de l’Hôspital», datato 1554, di Moroni che regge bene il confronto con lo splendido «Ritratto del principe vescovo Madruzzo» del 1552 del Vecellio) e poi con quelle dedicate ai «Ritratti del potere» e ai «Ritratti al naturale» che tanto piacevano a Longhi, perché «così veri, semplici, documentarii da comunicarci addirittura la certezza di averne conosciuto i modelli». E in effetti, fissando dritto negli occhi il canonico Giovanni Crisostomo Zanchi, l’anziano e risoluto Gabriele Albani e l’umanista Giovanni Bressani, si ha proprio l’impressione di stabilire un silenzioso e intimo dialogo con questi uomini vissuti quasi 500 anni fa, che Moroni ha ritratto dal vero dipingendo alla prima, senza la mediazione del disegno, per esaltare al massimo il potente naturalismo dell’indagine pittorica che gli permette di restituire fedelmente sulla tela non solo l’aspetto fisico (ma quanto sono «parlanti» le mani di Moroni!), ma anche l’anima dei suoi modelli, nei quali riesce a infondere un senso di individualismo straordinario.

La verità lombarda di cui Moroni si fa alfiere è molto apprezzata dalle principali famiglie bergamasche, che fanno a gara per avere suoi ritratti, spesso a figura intera o di tre quarti, talvolta accompagnati da motti in lingua spagnola (la vicina Milano esercitava la sua influenza, anche sulla moda del nero, come ben documenta l’ultima sezione) scolpiti negli elementi architettonici di gusto classico che fanno da quinta scenica alle rappresentazioni. È qui che la mostra tocca l’apogeo: i ritratti della poetessa Isotta Brembati con lo sciccoso ventaglio di morbidissime piume di cigno e quello del secondo marito, dandy elegantissimo, Gian Gerolamo Grumelli, passato alla storia come «Il cavaliere in rosa»; i due dei coniugi Spini della Carrara di Bergamo e quello di Prospero Alessandri proveniente da Vaduz-Vienna, Liechtenstein, The Princely Collections, sono capolavori assoluti che certificano la statura europea del maestro che, pur non avendo mai immortalato papi, imperatori o dogi, ha raggiunto l’olimpo dell’arte seguendo fino alla fine dei suoi giorni la via maestra del naturalismo come nessuno, prima di lui, aveva fatto. E, dopo di lui, solo Caravaggio.

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Davide Dotti, 19 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

Moroni, il più grande ritrattista europeo | Davide Dotti

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