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Guido Costa
Leggi i suoi articoliIl 10 ottobre negli spazi di Pirelli HangarBicocca, a Milano, si inaugura «This Will Not End Well» (11 ottobre-15 febbraio 2026), la grande retrospettiva di Nan Goldin, penultima tappa, prima del Grand Palais di Parigi, del lungo tour europeo dell’artista, che ha già toccato lo Stedelijk Museum di Amsterdam, il Moderna Museet di Stoccolma e la Neue Nationalgalerie di Berlino. Una retrospettiva che potrà sorprendere chi si aspetta una mostra fotografica che raccolga i celebri scatti dell’artista statunitense (classe 1953), magari organizzata cronologicamente, ma che, al contrario, si propone come un flusso vertiginoso di immagini, organizzate in isole tematiche. Unici protagonisti sono i suoi slideshow e i suoi video, la sua intera produzione multimediale, da «The Ballad of Sexual Dependency» del 1985 a due nuove opere, appositamente rieditate per la tappa milanese.
Una mostra straordinaria, che documenta in misura pressoché totale il suo intero patrimonio di immagini, dagli anni ’70 ad oggi, forse la sua migliore e intensa; una mostra che ha bisogno di tempi lunghi di fruizione e di tanta attenzione, una vera e propria enciclopedia ragionata del suo lavoro d’artista. Sono alcuni anni, peraltro, che l’attenzione di Nan Goldin è sempre più orientata all’immagine in movimento, pur senza aver del tutto abbandonato lo scatto tradizionale in forma di stampa fotografica, un «détournement», a dire il vero, già presente in forma embrionale fin dai suoi primi passi nel mondo dell’arte, ma che con il tempo ha preso sempre più spazio, frutto forse del suo mettersi costantemente in gioco e di un’insofferenza, mai nascosta, verso la forma canonica della rappresentazione fotografica. E non mi riferisco soltanto agli slideshow, che da subito si sono proposti come strumenti essenziali della sua ricerca di una narrazione complessa, fatta di immagini esemplari. Penso anche ai suoi tanti esperimenti sull’immagine multipla, in forma di polittico o griglia, realizzati a partire dalla fine degli anni ’90. Più recenti sono invece le opere che potremmo definire alchemiche, ben rappresentate nella retrospettiva, dove immagine fissa e sequenze video si assemblano su un tappeto sonoro, o i vertiginosi «cut up» cinematografici, mai scontati e frutto di una sofisticata conoscenza della storia del cinema.
Se riflettiamo più nel dettaglio sui mutamenti strutturali del suo lavoro degli ultimi decenni, che si distilla in questa sua retrospettiva, non possiamo non riconoscere un progressivo distacco dalle regole fondanti della fotografia storica in favore di una maggiore flessibilità, tipica del sistema e delle regole, dette e non dette, dell’arte contemporanea. Un percorso che condivide con molti altri fotografi contemporanei e ormai assolutamente comune nelle pratiche attuali, sempre più orientate a un crescente eclettismo dei mezzi e dei linguaggi. Nelle storie d’artista così lunghe e complesse come è quella di Nan Goldin, ciò ha creato inevitabilmente non pochi problemi nella classificazione del corpus delle sue opere, disorientando spesso i collezionisti e il mercato. Si potrebbe obiettare che questo è un caso comune a tanti altri artisti, e forse può anche essere vero, ma pochi altri fotografi hanno avuto un successo commerciale così rilevante, costringendo il sistema della distribuzione, e di conseguenza l’artista stesso, a sempre nuove soluzioni in grado di cavalcare i due estremi, rappresentati della qualità dell’opera e dell’insaziabile richiesta del mercato.
Nan Goldin nasce come artista nei primi anni ’70 e, tecnicamente, i suoi esordi sono del tutto in linea con la fotografia di quel periodo e con la sua giovane età: scatti in bianco e nero, di piccolo formato, stampati manualmente in laboratori di bassa qualità in copie editate in base al suo gusto e alle richieste degli amici, spesso gli stessi soggetti dei ritratti. Una produzione molto limitata, soprattutto per ragioni economiche, rigorosamente vintage e oggi assai rara. La svolta avviene nei primi anni ’80, sia con l’inizio dell’uso del colore, sia con le prime mostre in gallerie commerciali. Ai tempi lo standard per qualsiasi fotografo esordiente era quello di editare il più possibile, mantenendo un’uniformità di formato e prezzi bassi alla vendita. Dunque edizioni di 35 o 25 esemplari, al variare della richiesta e da stampare su ordinazione. Ecco perché, ancora oggi, si possono trovare sul mercato secondario scatti di Nan Goldin di dimensioni più piccole rispetto al formato considerato oggi classico (70x100 cm), ma il cui uso risale ai primi anni ’90, al pari della stampa su carta Cibachrome «metal», usata dall’artista fino al 2000.
Proprio a partire dai primi anni ’90, grazie al successo commerciale e alla sua collaborazione con le grandi gallerie internazionali, inizia a rendersi necessaria una semplificazione del suo lavoro più funzionale al mercato, da esercitare innanzitutto nel formato, poi nel numero di copie, via via sempre di meno, e infine nell’utilizzo di un differenziale economico al variare delle copie vendute, con il prezzo massimo per l’ultima disponibile. Un principio, questo, ormai comune nel mercato fotografico, specie in ambito anglosassone e statunitense, ma che, creando una moltitudine di prezzi per una stessa immagine, spesso disorienta il compratore
non esperto. A complicare ulteriormente le cose, dalla seconda metà degli anni ’90, per ovviare alla scomparsa dei suoi scatti più iconici, non più disponibili perché tutti venduti, vengono stampate edizioni degli stessi scatti in formato extra large, editati in pochissimi esemplari e proposti a un prezzo consistente; oltre a ciò, compariranno riedizioni in 18 esemplari di alcuni scatti vintage in bianco e nero degli anni ’70. Alla lista, già piuttosto nutrita, si aggiungono, in tempi molto più recenti, le grandi griglie di diverso formato, i dittici e i trittici, tratti da cicli specifici della produzione dell’artista, con quotazioni ovviamente diverse in base alle dimensioni e agli esemplari disponibili. Se, infine, aggiungiamo le opere recenti e gli slideshow (in edizioni molto limitate, tra i tre e i cinque esemplari, estremamente costose e spesso destinate alle sole istituzioni pubbliche o alle grandi collezioni), si può immaginare il labirinto di opportunità e opzioni e il disorientamento del pubblico non specialistico.
Penso che da questo punto di vista il percorso di Nan Goldin, che l’ha portata dalla fotografia classica al mercato dell’arte contemporanea, sia assolutamente esemplare nell’identificare pregi e difetti di entrambi i sistemi e ci dica anche molto su quanto è successo in arte negli ultimi decenni. Tra gli anni ’90 e oggi la crescente popolarità della fotografia e delle arti visive in generale ha rappresentato una profonda rivoluzione nel gusto comune e un allargamento progressivo del pubblico dell’arte, trasformando un’economia fino ad allora di nicchia in un fenomeno di costume. L’enfasi sul ruolo del mercato e l’assimilazione dell’arte alle altre forme di investimento, fenomeno anche’esso piuttosto recente, ha dapprima creato euforia negli attori coinvolti e un deciso aumento dell’offerta creativa, per poi piegarsi sempre di più a logiche speculative ed effimere, più interessate alla quantità degli scambi che alla qualità dell’opera. Di conseguenza, l’interesse verso l’esemplare unico, più facilmente difendibile in una logica di puro mercato, e l’elitarismo utilizzato come spinta all’acquisto, hanno contagiato anche la fotografia, spingendola ad alterare la sua natura di multiplo e costringendola a edizioni sempre più ridotte, distillate ed esclusive.
Purtroppo, l’abbondanza dell’offerta di fotografia sul mercato secondario, specie nelle aste di settore, conseguenza della sua natura di multiplo, ha generato un fenomeno che già si era visto nel caso dei multipli d’arte a inizio anni ’90, il cui valore, salvo alcuni casi assai rari, era via via diminuito fin quasi ad azzerarsi. Da alcuni anni ciò sta avvenendo anche nella fotografia, costringendo quindi sia gli artisti sia il sistema di distribuzione a reinventarsi costantemente, allineandosi a proposte più elitarie e seduttive per il mercato importante. Da questa prospettiva ci è più facile leggere il percorso che ha accomunato tanti grandi nomi della fotografia contemporanea, da Wolfgang Tillmans, ad Andreas Gursky, portandoli dai grandi formati alle edizioni sempre più ristrette, fino agli esemplari unici. Questa dialettica tra produzione e distribuzione, tipica del mercato, non è però da leggere esclusivamente come una deriva creativa o un bieco patteggiamento con le esigenze del commercio. Accanto a tanti esempi fallimentari e a tanti patetici compromessi, tale dialettica ha anche prodotto risultati significativi, inaugurando contaminazioni tra tecniche diverse e felici sperimentazioni. La lunga storia di Nan Goldin ce lo dimostra appieno e «This Will Not End Well», a dispetto del titolo, si propone come splendido documento di una fotografia non più fotografica, nata dalla costante rielaborazione di un archivio di immagini, messe in gioco da un editing costante, sapiente e mai definitivo. Perché l’arte, quando è vera, sa sempre rinascere, anche dalle proprie ceneri.