È lo scompiglio, citato da Marguerite Duras nel suo Hiroshima Mon Amour, a richiamare l’identità di Palermo fino a suggerire il titolo della mostra «Palermo Mon Amour», curata da Valentina Greco e aperta fino al 24 settembre nella Fondazione Merz. La città, protagonista dagli anni ’50 agli anni ’90, è intercettata negli scatti di cinque fotografi: fotografie in bianco e nero raggruppate per autore che compongono un panorama urbano unitario, palpitante, ambiguo, folle nella sua ordinaria quotidianità.
Dal rigore delle composizioni narrative, cinematografiche, neorealiste di Enzo Sellerio che sbalordisce per la nobile resa dei ritratti, crudi e autentici, alla voce di denuncia di Letizia Battaglia. Voce che diventa lamento di morte, minaccia e grido, di fronte a un’infanzia impegnata a lavar piatti e non tra i banchi di scuola, stupore che lambisce vestiti alla moda, jukebox e le tavole dopo la festa. Perché a Palermo la festa c’è sempre e comunque, continua, inesorabile e vi si accorre coralmente, che sia quella di carnevale, di capodanno o il pellegrinaggio di santa Rosalia.
Come negli scatti di Franco Zecchin, dove a sfilare non è soltanto la Madonna del Carmelo, salvifica apparizione tra il fumo dei petardi, ma anche i corpi stesi a terra, frammenti di un’umanità smembrata. Gli anni ’80 costellano Palermo di morti, cospargono di cadaveri strade, garage, negozi, gonfiano le folle dei funerali, delle commemorazioni, i miseri interni di famiglie rumorose.
Proseguono gli scatti di Fabio Sgroi e Palermo, incessante e irrefrenabile, persevera nella scia della lotta, della rivalsa, della desolazione. È teatro di un corteo studentesco per la lotta alla mafia, spazio pubblico per la candidatura di Ilona Staller per il Partito Radicale, set cinematografico per le riprese di «Mery per sempre» e di «Il Padrino». Palermo si contorce e velocemente cambia pelle.
Travestimento e alterità negli scatti di Lia Pasqualino, alcuni dei quali tratti dallo spettacolo «La macchina dell’amore e della morte» del drammaturgo Tadeusz Kantor. Restituiscono il senso assurdo di questo viaggio visivo tra reale e immaginario, dove amore e morte, Eros e Thanatos s’intrecciano compenetrandosi senza possibilità di distinzione.