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Loretta Vandi
Leggi i suoi articoliL’ultimo lavoro di Stephen J. Campbell è costruito su diversi livelli di riflessioni critiche e credo che la più importante, capace di unificare tante direzioni contrastanti, possa essere questa: indipendentemente dalla quantità e qualità dei materiali a disposizione dello storico dell’arte, l’identità di Leonardo dipende dall’abilità degli studiosi di ignorare quello che si vorrebbe che l’artista fosse stato. Ma alcuni studiosi, molti mercanti d’arte, la maggioranza dei visitatori di musei e mostre e quasi tutti gli organizzatori di queste ultime non accettano questa proposta. Essi costituirebbero i «Da Vinci Worlds», mondi illusori spacciati per veri, fatti di conoscenza spuria, di simboli, di grande resistenza e di resilienza nel tempo. Campbell mostra che questo Leonardo inventato è il prodotto di chi ha voluto riempire l’assenza o l’esiguità dei documenti con supposte interpretazioni di segreti («San Giovannino»), rivelazioni di misteri («Gioconda»), scoperte di capolavori («Salvator Mundi»).
Ma chi fu il vero Leonardo? O meglio: è corretta una domanda di questo genere? Escludendo la teoria del genio solitario, Campbell ricostruisce i pensieri e le azioni di un individuo che aveva stretti rapporti con il suo ambiente, che studiava e dava forma a sé stesso attraverso l’osservazione del mondo e della tradizione filosofica, entrambe commentate dall’artista stesso con la sua scrittura. Facendo sua quella che potrebbe essere definita come «sermocinatio», nei suoi scritti Leonardo parla a sé stesso e a una varietà di interlocutori, presentando le sue ricerche come un divenire di proposte e di tentativi di comprendere la realtà.
Il libro parte da Leonardo, si sviluppa attraverso la storiografia, analizza sociologicamente la società di oggi, le nostre aspettative e il futuro degli studi storico artistici. Futuro che dipenderebbe dal dialogo tra le pratiche storico critiche e la tecnologia. In questi termini si comprende il giudizio di Campbell, che insegna Storia dell’arte alla Johns Hopkins University, sull’Intelligenza Artificiale (IA): «Mentre la metrica computazionale può organizzare dati e riconoscere pattern, essa non può determinare la causalità o l’intenzionalità, che sono tra gli scopi dell’interpretazione critica e storica propria degli studi umanistici. I risultati dell’IA dipenderanno dalla verifica umana». Il volume si conclude con una teoria sull’importanza di scrivere antibiografie, le sole capaci di distruggere l’illusione di familiarità e coerenza organica tipica delle biografie tradizionali. L’antibiografia permette allo storico dell’arte di restituire, nei limiti del possibile, all’artista studiato la varietà di direzioni e di trasformazioni che una persona vive col passare del tempo, senza applicare a essa schemi preparati in anticipo. In occasione della recensione è stato possibile intervistare l’autore del volume.

Leonardo da Vinci, «Ritratto di Lisa Gherardini del Giocondo (Mona Lisa)», 1500-17 ca, Parigi, Louvre. © Rmn-Grand Palais / Art Resource, Ny
Il libro è ricco di osservazioni nuove e stimolanti, ad esempio lei afferma che «la scrittura di Leonardo costituiva uno specchio per una personalità che si assemblava e si incarnava solo sulla pagina». Lei afferma anche che Leonardo sapeva che il linguaggio era «generativo di pensiero e di invenzione, un mezzo di sperimentazione in sé». Qual è il rapporto tra parole e immagini in Leonardo?
Si parla molto dei suoi scritti sul cosiddetto «paragone», in cui esalta il potere dell’immagine e la superiorità dell’arte del pittore rispetto a quella dello scrittore. È una brillante performance retorica, che ha le sue origini nell’incipit del libro II del De pictura (1435) di Leon Battista Alberti, in cui l’autore paragona il pittore a Dio, ma non è un manifesto o una teoria della pittura. Se vogliamo, si tratta di un’opera di pubbliche relazioni professionali, un attacco retorico ai poeti e ai filosofi che avevano sottovalutato la pittura, definendola un’arte meccanica. Lo scritto di Leonardo mette in primo piano la funzione pittorica, o di creazione di immagini, del linguaggio, i suoi aspetti metaforici e la sua capacità di trasmettere effetti di forza e di impeto, fondamentali per la sua fisica e la sua ossessione per il moto dei fluidi. Questo è quanto possa essere di più vicino a una sorta di personalità in Leonardo. Per quanto ne sappiamo, Leonardo non fece mai un autoritratto, non firmò mai un’opera e non terminò mai nessuno dei suoi ambiziosi trattati. E nei suoi scritti non commenta mai le proprie emozioni, il benessere fisico o la malattia, il comfort o il disagio. Nonostante tutto il suo esame medico e scientifico dei corpi di uomini e animali, menziona a malapena il proprio. Credo che alla fine abbia ritenuto che gli spazi disordinati in cui si impegnava corporalmente con pigmenti, metalli e visceri umani fossero contaminanti per lo status di filosofo che i suoi scritti cercano di coltivare.
Uno dei concetti-guida del suo testo è quello di «tensione». In Leonardo, secondo lei, le tensioni sono sia strutturali che produttive. Quali elementi mettono in moto il processo?
In primo luogo, c’è la tensione tra l’aspirazione a essere uno scrittore e il fatto di essere senza lettere, un artigiano agli occhi del mondo. Per farlo deve appellarsi al valore dell’esperienza, ma naturalmente la sua comprensione di ciò che sperimenta è in ultima analisi modellata da ciò che legge: Aristotele, Dante, Luca Pacioli, Ristoro d’Arezzo. Ci sono anche altre tensioni strutturali: da una parte, una costante derisione del suo contemporaneo Botticelli, un artista di successo ma meno ambizioso dal punto di vista intellettuale; dall’altra, un assorbimento, nel corso di tutta la sua carriera, dell’arte di Botticelli, con il suo potere energizzante del contorno e della linea fluida.
In conclusione, quali erano le sue aspettative prima di iniziare a scrivere il libro e qual è il suo giudizio dopo la lunga esperienza di scrittura, ora che il testo è stato completato?
Ho iniziato pensando di scrivere una sorta di testo giornalistico sull’odierno sfruttamento commerciale di Leonardo da parte degli innovatori tecnologici e del mercato dell’arte e di vari tipi di pseudo storici dell’arte. Ma, man mano che procedevo, ho scoperto che c’erano cose che andavano dette sulle immagini e sugli scritti di Leonardo. E sono arrivato a credere che solo dimostrando le basi delle nostre affermazioni sul conoscere qualcosa riguardo a Leonardo da Vinci, possiamo aiutare i nostri lettori a prendere posizione contro le affermazioni spurie e sensazionali sul «genio senza tempo», sui «misteri nascosti» e sui «capolavori perduti riscoperti».
Leonardo da Vinci. An Untraceable Life
di Stephen J. Campbell, 352 pp., ill., Princeton University Press, Princeton 2025, € 30,77

Leonardo da Vinci, «L’uomo vitruviano», 1490 ca, Venezia, Gallerie dell’Accademia. Cameraphoto Arte, Venice / Art Resource, Ny
Professor Campbell, lei ha scritto un libro in cui riflette sull’arte, sul mercato, sulla personalità, sui mondi illusori, sul turismo di massa e, naturalmente, su Leonardo. Partirò dalla sua conclusione, dove riprende il titolo del suo libro. Lei afferma che antibiografia significa «permettere a ciò che rimane dei prodotti artistici e letterari di estendere e complicare la nostra idea del loro creatore in modi imprevisti e vivificanti, soprattutto per quanto riguarda il modo in cui questa vita avvolge le vite degli altri». Potrebbe approfondire questa affermazione?
La biografia moderna, distinta, ad esempio, dalle Vite del Vasari, è un risultato del Romanticismo ed emerge di pari passo con il romanzo. Mira a un ritratto a tutto tondo di una personalità distintiva assemblata attraverso l’uso di eventi ed esperienze di vita, ma esplora anche le motivazioni psicologiche e la formazione della personalità. Spesso si ha la sensazione che alcuni artisti, poeti, performer e personaggi pubblici del XIX secolo vivessero la loro vita in funzione di una posterità biografica, con un’eredità calcolata di lettere, diari, pubblicazioni, ritratti, ecc. Gli individui dell’epoca premoderna non pensavano alla vita o alla scrittura sulla vita in questo modo. Una «Vita», per Ghiberti o Vasari, era il resoconto dei successi e dei fallimenti professionali, scritto per esemplificare la buona padronanza tecnica. I riferimenti al temperamento di un soggetto, basati sulla teoria degli umori, erano generici e moraleggianti. Naturalmente, i poeti nella tradizione di Dante e Petrarca hanno prodotto forme di scrittura biografica con confessioni estremamente stilizzate, basate sull’introspezione, sulle esperienze di perdita e di lutto, talvolta sulla conversione. Tra gli artisti, forse solo Michelangelo può vantare questa soggettività poetica, creando un resoconto della sua vita intima come un’impresa letteraria, attraverso sonetti, lettere e disegni. Leonardo, notoriamente contrario alla poesia, da questo punto di vista non potrebbe essere più diverso. Non gli sarebbe mai venuto in mente di presentare la sua vita artisticamente come fece Michelangelo e, in questo, non si differenziava né dai suoi colleghi artisti né dagli uomini e dalle donne del mondo mercantile. Questo non significa che Leonardo sia particolare nella sua gamma di attività intellettuali. Tuttavia, gli scorci frammentari della sua vita a cui abbiamo accesso ci mostrano che è stato plasmato dalla socievolezza del mondo della bottega (un mondo basato sul fare, sul know-how, sulla scrittura e sulla lettura) così come dalla corte e dall’accampamento militare. L’unica vita interiore che egli comunica è quella della mente e molti suoi scritti hanno un tono colloquiale. Penso che sia affascinante immaginare Leonardo senza la biografia psicologizzante inventata per lui da scrittori, pittori e romanzieri del XIX secolo, che culmina nel tentativo di Sigmund Freud di scrivere un saggio psicopatologico su Leonardo, che è una speculazione su un’unica prova sulla sessualità dell’artista.
Il suo libro parla delle responsabilità che gli storici dell’arte dovrebbero assumersi quando il loro obiettivo è quello di ricostruire, attraverso lo studio di un artista importante, un’intera rete di relazioni. Cosa intende per «rete di relazioni»? Non è la stessa cosa della ricostruzione di un contesto?
È un fatto più intenso del contesto come lo intendiamo normalmente nella storia dell’arte. La rete di relazioni ha a che fare con il modo in cui i sé si incorporano in altri sé. Le persone del periodo premoderno non si vedevano come individui delimitati, ma come formati in modo determinante da genitori, consiglieri spirituali, insegnanti, sostenitori, santi protettori, capi e colleghi. Quando si cerca di rintracciare Leonardo attraverso il copioso archivio dei suoi scritti, l’individuo tende a scomparire dietro pile di registrazioni cartacee di transazioni, scambi e promemoria su colleghi artigiani, garzoni di casa, specialisti di vario genere, dai matematici ai medici, persone che possedevano libri che lui voleva leggere, personale militare. Sostengo che Leonardo ha creato una serie di personaggi retorici nei suoi scritti, ispirata dalla sua diligente lettura, e che ha costruito una sua identità artistica o un marchio che si è esteso attraverso gli artisti che hanno collaborato con lui o che hanno copiato e adattato le sue opere, soprattutto in Lombardia.
Il suo libro è un misto di critica ironica e riflessioni costruttive. Alla prima appartiene l’ampia trattazione dei «Mondi da Vinci», alla seconda la sua concezione di cosa significhi, oggi, essere uno storico dell’arte ma anche uno storico.
In una recensione del mio ultimo libro mi è stato rimproverato di non essere un vero storico dell’arte, perché il mio approccio interdisciplinare «trasforma la storia dell’arte in una disciplina ibrida in cui confluiscono teologia, filosofia, storia e sociologia con pochissime tracce di connoisseurship o di analisi stilistica». Che orrore! Un tale settarismo sarebbe divertente, se non fosse pernicioso, perché aderisce all’idea fuorviante secondo la quale se si lavora come uno storico della cultura allora non ci si preoccupa della connoisseurship e dell’analisi stilistica, mentre io mi impegno in entrambe. Ritengo che la storia dell’arte sia una disciplina umanistica e che quindi anch’essa debba avere la più ricca base interdisciplinare possibile. Nel libro descrivo la storia dell’arte come una pratica tripartita: è tecnica e basata sugli oggetti; è archivistica e contestuale; ed è un’impresa critica che parte dal formalismo, ma non si limita ad esso. Per me, l’analisi formale o stilistica riguarda il modo in cui l’opera d’arte opera su chi la guarda. Roberto Longhi, Michael Baxandall, Leo Steinberg l’hanno capito, anche se i loro epigoni continuano a non capirlo. Quindi, il mio racconto di Leonardo e dei leonardeschi riguarda in gran parte lo stile, ma lo stile come identità artistica e come retorica affettiva.

La copertina del volume
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