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Fabio Volo

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Fabio Volo

Per vedere bisogna sentire

L’eclettico scrittore e attore si presenta, per beneficenza, come fotografo: «Nell’arte il messaggio vive nel rapporto  tra il creatore e l’oggetto creato. È come per un libro: se quello che scrivi è sentito più che pensato, allora “arriva”» 

Elisabetta Oropallo

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Undici romanzi tradotti in ventiquattro lingue, otto milioni di copie vendute, Fabio Volo (Calcinate, Bg, 1972) è un personaggio eclettico e fuori dagli schemi. Interprete di numerosi film e candidato a un Nastro d’argento e a un David di Donatello. Il grande pubblico lo conosce soprattutto per la sua attività in radio e televisione, dove è capace di far ridere con una battuta e di commuovere recitando un canto della Divina Commedia.
Tutto ciò che fa sembra riuscirgli alla perfezione, da autodidatta: scrittore, attore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e televisivo. Ora si presenta in una nuova veste: quella di fotografo.
Dal 22 al 26 febbraio, infatti, lo si potrà vedere in una mostra alla Galleria Fabbrica Eos di Milano (info@fabbricaeos.it): una ventina di scatti, raccolti durante i suoi viaggi intorno al mondo, la cui vendita sarà interamente devoluta per sostenere le attività dell’Associazione Il Volo (pura quanto curiosa omonimia) che si occupa di ragazzi con problemi psichiatrici.
Lui stesso descrive le sue immagini come «fotografie senza un senso, ma forse proprio per questo hanno un che di spontaneo, sono frazioni di un secondo anonimo».
I suoi scatti catturano frammenti di vita passati davanti ai suoi occhi, che l’obiettivo fissa eternizzando quel momento, anche se in quell’attimo non è successo nulla di grandioso. La vita è fatta proprio di questi momenti: brevi istanti di «eroico» quotidiano. C’è molta natura nelle sue fotografie: sconfinati cieli che incombono sulle terre dai colori brillanti, paesaggi di ghiaccio, impressionanti vedute del Grand Canyon, ma anche molti scorci metropolitani, dai profili delle case di Milano e New York alle piccole realtà dell’Islanda.
Volo mescola, come nei suoi programmi e nei suoi libri, l’alto e il basso, la profondità e la leggerezza, la serietà e l’ironia, sempre con innata spontaneità.

Com’è nato il suo interesse per la fotografia?

Non saprei esattamente, ma forse perché ho dei bellissimi libri di fotografia: Nan Goldin, Sebastião Salgado, Luigi Ghirri, una collana di libri di Magnum Photos. Il mio amore per l’immagine è nato così, dai libri. Mi piacciono sia la fotografia sia il cinema e anche la pittura, soprattutto l’arte sacra.

Qual è il suo rapporto con l’arte?

Il mio rapporto con l’arte è lo stesso che ho nei confronti della vita: la curiosità. L’arte mi incuriosisce; non capisco quasi niente, non ne so quasi niente, ma mi pongo davanti all’opera d’arte con un occhio vergine, senza sapere che cosa sia, senza conoscerne la storia. Al limite, se mi interessa, mi informo dopo e approfondisco. Il mio rapporto con l’arte consiste nel cercare di scoprire che cosa vuole comunicarmi.

Per lei è più importante l’improvvisazione oppure lo studio di un’immagine prima di scattare una fotografia?

Per me è bello il momento da cogliere; io improvviso, vedo una cosa che mi piace e allora mi fermo a fotografarla. Non rispetto le inquadrature canoniche e non metto quasi mai la cosa che mi interessa al centro della fotografia. Quando ero bambino e facevo i disegni alle elementari, non ero capace di stare dentro i limiti del foglio. Se dovevo disegnare una pianta, magari il tronco occupava tutto il foglio e non sapevo più dove mettere i rami e le foglie, come se il mio disegno non avesse confini. Spesso mi rimproveravano ma, crescendo, ho scoperto che era una cosa buona, perché non avevo limiti: in questo modo vedevo anche quello che non si vedeva. 

Ha mai collezionato fotografie?

Ho solo acquistato due fotografie di Nobuyoshi Araki, con una sua pennellata che le unisce. Vorrei dire ai ladri di non venire però, perché non le tengo in casa (ride).

Chi è il suo fotografo di riferimento?

Devo ammettere che Luigi Ghirri mi piace tanto, ma anche Sebastião Salgado, Elliot Erwitt e Irving Penn sono tra i miei preferiti.

Secondo lei si può veicolare un messaggio attraverso l’arte?

Il messaggio risiede nel rapporto tra il creatore e l’oggetto creato. È un po’ come quando scrivi un libro: se quello che scrivi è sentito, più che pensato, allora arriva. Tutto ciò che è sentito arriva, tutto ciò che è pensato può anche piacere, ma diventa cervellotico: il sentire, invece, va oltre il limite della mente. Tutto ciò che è sentito è più potente.

Che cosa le piace fotografare principalmente?

In genere fotografo la natura e le case: qualunque cosa che vedo e attira la mia attenzione. Può essere un oggetto per terra piuttosto che un palazzo.

Quali sono i luoghi del mondo che vorrebbe fotografare?

Sicuramente l’India, dove non sono mai stato, e anche la Cina.
 

Fotografa con il cellulare, la macchina fotografica o la polaroid?

Ho anche una polaroid, però devo dire che la maggior parte delle fotografie le faccio con il telefono, perché non vado in giro per fotografare; anzi, rispetto molto chi ha una vera passione per la fotografia. Non sono come quelle persone che si fermano ogni minuto per fotografare o fotografarsi; andare in vacanza con qualcuno così credo sia impegnativo, perché ogni minuto ti devi fermare. Chi ha la passione per la fotografia deve viaggiare da solo. Non viaggio mai con l’idea di scattare, io viaggio per viaggiare; poi, se vedo una cosa che mi piace, la fotografia viene dopo, ma non è l’obiettivo del mio viaggio. E poi, soprattutto, non è il mio mestiere.

Qualche libro o film sulla fotografia o sull’arte l’hanno colpita in particolare?

In assoluto mi è piaciuto molto il documentario «Il sale della terra» realizzato dal figlio di Sebastião Salgado e da Wim Wenders. Il famoso fotografo ha viaggiato alla ricerca delle tracce del cambiamento del mondo e dell’umanità attraverso i conflitti, le carestie e altri eventi che hanno cambiato la nostra storia.
 

Pensa di dedicarsi ancora alla fotografia in futuro?

Ma io non mi sono mai dedicato alla fotografia! (ride) Non mi reputo all’altezza di esporre in una mostra: questa è nata per caso e, soprattutto, per fare del bene ed essere di aiuto ai ragazzi de Il Volo, visto che portiamo lo stesso nome. Per restare in tema, forse un giorno potrei fare la regia di un film, ma il fotografo, chissà? Magari in futuro imparerò a fare anche delle belle foto...

C’è una sua fotografia di cui è particolarmente fiero?

Una in particolare no, ma posso dire di avere moltissime immagini di albe. Dato che la mattina mi sveglio sempre molto presto, e non solo per impegni radiofonici, quando vado davanti alla finestra guardo il sole che sorge e mi incanto. Per fermare quel momento scatto una foto. Quando chiamo i miei figli la mattina per andare a scuola e dico loro: «Bambini, correte, venite a vedere che bella l’alba!», in genere loro mi rispondono: «Papà, uffa, l’alba è sempre uguale!». Invece no, ogni alba è diversa ed è sempre un momento meraviglioso da vedere e immortalare. 

Ci sono opere davanti alle quali è rimasto senza parole?

Sì, la «Pietà» di Michelangelo a San Pietro, il «Cristo Velato» alla Cappella Sansevero di Napoli e il «Cristo morto» del Mantegna all’Accademia di Brera. Talvolta ne sento il bisogno e vado a Brera a vederlo: di fronte a tanta bellezza, mi consolo.

Pensa che l’arte possa avere un ruolo importante per le generazioni future?

Secondo me, bisognerebbe abituare le nuove generazioni a esporsi maggiormente allo stimolo dell’arte, non solo con le mostre, ma anche attraverso la settima arte: il cinema. Pensare che ognuno di noi possa entrare in una libreria e prendere un libro di Dostoevskij, ma che non possa vedere un film di Fellini, Kiarostami o Kieslowski senza doverselo scaricare illegalmente da internet è assurdo. Bisognerebbe che questi grandi capolavori potessero essere facilmente fruibili e alla portata di tutti. Un accesso facile che, in realtà, avviene soltanto con i libri. 
Penso anche che si debba dare più importanza alle nuove generazioni. Ultimamente, leggendo i giornali, ho la sensazione che i problemi che si affrontano siano completamente scollegati da quelli reali che si vivono all’interno dei nuclei familiari. Noi stiamo qui a discutere dell’aumento del contante e ci sono famiglie con enormi problemi, un’intera generazione di adolescenti abbandonata ed equilibri ecologici in crisi. Ci focalizziamo su certi temi, quando invece il quadro è molto più ampio. È un po’ come essere a bordo del Titanic che sta affondando e lamentarci perché i bagni non funzionano. 

In questo periodo vi sono frequenti gesti di protesta di giovani che imbrattano opere d’arte e monumenti: che cosa ne pensa?

I ragazzi, con gesti eclatanti come gettare la vernice alla Scala di Milano o sulle opere d’arte nei musei, sono un’immagine molto forte che tocca la sensibilità di tutti. Stanno cercando di dirci qualcosa: mettere al centro di queste discussioni un tema più importante. Al di là dei modi e dei metodi che lasciano perplessi, non possiamo ignorarli. Dobbiamo ascoltarli, ammettere che c’è un problema reale che, purtroppo, non è abbastanza al centro della nostra attenzione. L’arte serve anche a questo.



*Elenco completo a pagina II

Elisabetta Oropallo, 01 gennaio 2023 | © Riproduzione riservata

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