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Archivio di Stato di Palermo, sede della Gancia, sala della Tesoreria

Photo: Antonio Tarasco

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Archivio di Stato di Palermo, sede della Gancia, sala della Tesoreria

Photo: Antonio Tarasco

Perché il patrimonio culturale ha bisogno (anche) di giuristi

Per curarlo al meglio, secondo il giurista Antonio Leo Tarasco, direttore generale Archivi del Ministero della Cultura, è necessario creare ruoli tecnici dedicati al diritto e alla gestione dei beni culturali

Laura Castelli

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Antonio Leo Tarasco, classe ’75, è direttore generale Archivi dal 2024. Già capo dell’Ufficio legislativo del Ministero della Cultura, vicecapo di Gabinetto del Ministero per il Sud e la coesione territoriale, è avvocato e dottore di ricerca presso la Seconda Università di Napoli abilitato alle funzioni di professore ordinario di Diritto amministrativo. È anche stato dal 2007 al 2010 ricercatore di Diritto amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università «Federico II» di Napoli. Autore di oltre 150 pubblicazioni scientifiche, insegna in diverse Università italiane, tra cui l’Università di Salerno, dove dal 2023 è titolare del primo corso italiano dedicato al Diritto e gestione del patrimonio culturale. È, dunque, uno dei rari casi di dirigente e professore universitario.

La prima domanda non è del tutto disinteressata: come arriva un giurista a dirigere gli Archivi generali di Stato? 
Mi sono specializzato nel Diritto dei beni culturali subito dopo la laurea in Giurisprudenza: il mio dottorato di ricerca ha avuto come oggetto il rapporto tra sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale nella gestione del patrimonio culturale in un momento storico (primi anni 2000) ancora lontano da quell’effervescenza, talvolta un po’ scoordinata e superficiale, dei nostri anni. Mi riferisco ai dibattiti che hanno a oggetto questi temi; dibattiti più numerosi che approfonditi, che spesso non portano a conclusioni innovative e non sono dunque particolarmente utili per l’avanzamento della scienza della gestione del patrimonio culturale. Credo nella necessità di formare giuristi specializzati nel settore: ci sono fisici e chimici dei beni culturali, esperti nei materiali e nel restauro e, tra questi ultimi, categorie iperspecialistiche (quali i conoscitori della carta, dei materiali pergamenacei, fotografici…). Tutto assolutamente corretto. Eppure, mi chiedo: perché non c’è un’analoga tassonomia dei giuristi esperti nella gestione del patrimonio culturale? Dovremmo avere esperti nei profili della proprietà intellettuale, dell’organizzazione dei progetti espositivi, in materia di fiscalità, di contrattualistica, in ciascuno dei profili specialistici che la cura del patrimonio culturale normalmente comporta. E, invece, assistiamo a un vero e proprio horror vacui, malamente colmato da una pratica che pretenderebbe di apprendere sul campo, ma che si rivela priva delle necessarie competenze teoriche e della necessaria apertura mentale.

Al di là delle specifiche competenze cui fa riferimento, ci sono pochi giuristi nel campo in assoluto: basti pensare al fatto che sono rari (e quasi sempre sono privati) i musei che hanno al loro interno un ufficio legale o, comunque, figure giuridiche di riferimento. 
Assolutamente! L’errore che è stato commesso e si continua a commettere in Italia è quello di confondere la totalità delle professionalità utili per i beni culturali con quelle che servono esclusivamente per il restauro e la conservazione degli stessi. I due aspetti non sono sovrapponibili: il restauro attiene alla conservazione e quindi alla tutela del patrimonio culturale; poi abbiamo l’area della valorizzazione e della fruizione e da poco abbiamo, grazie alla legge sul made in Italy n. 206/2023, l’area della valorizzazione economica del patrimonio culturale. Chi si interessa di questi aspetti? E con quale competenza? È evidente che se sono plurime le funzioni, plurime devono essere anche le professionalità che, dunque, non possono essere schiacciate unicamente sugli aspetti conservativi. Da almeno vent’anni mi batto per questo. È del 2006 il mio volume su La redditività del patrimonio culturale (Giappichelli, Ndr) e del 2019 quello dedicato a Diritto e gestione del patrimonio culturale (Laterza, Ndr): nell’intervallo, soltanto melliflue intenzioni. Il tema dell’utilizzazione profittevole del patrimonio culturale si impone solamente quando si tratta di studiare le esternalità economiche positive per gli imprenditori e i settori che sono collegati con la gestione del patrimonio culturale, ma non si parla ancora dei profitti ottenuti dai soggetti (pubblici) che lo curano.

Come si potrebbe colmare questa lacuna? 
Attingendo alla normativa già esistente, secondo la quale i beni culturali sono beni pubblici, e proprio in quanto tali devono essere anche profittevoli. Ciò significa che da un lato vi è un obbligo di utilizzazione redditiva, dall’altra c’è un divieto di sottoutilizzazione economica. Un tema, questo, riproposto dalla ormai imminente iscrizione in bilancio del patrimonio culturale, che implica una rendicontazione economica delle modalità di utilizzo dei beni culturali. Trattasi di un campo in cui gli aziendalisti devono necessariamente dialogare con i giuristi. Si sente anche la necessità di controllori esterni che sappiano monitorare questi aspetti, considerando che la gestione del patrimonio culturale costa, sì, ma può e deve anche rendere. Il controllo sulla gestione del patrimonio culturale non si può ridurre solo a controllo della spesa ma anche delle entrate, quelle attuali e quelle potenziali. La recente legge sul made in Italy n. 206/2023 introduce il concetto di valorizzazione anche economica del patrimonio culturale: questa non può essere considerata la missione del solo Ministero della Cultura, poiché è un principio-obbligo al quale devono ispirarsi tutte le amministrazioni. Abbiamo un patrimonio vastissimo, che ammonta a oltre 220 miliardi di euro e già questo valore è largamente sottostimato. Occorre domandarsi non solo quanto costa ma anche quanto rende; e quanto rende per sé, a beneficio dei soggetti pubblici proprietari e non soltanto delle imprese del settore; e non interrogarsi solo sul numero e sulla tipologia di occupati del settore: questi ultimi sono l’oggetto dei soliti e tradizionali studi di economia della cultura che nulla aggiungono alle indagini sui modi di incrementare i ricavi per la Pubblica Amministrazione (a beneficio, sia chiaro, della finanza pubblica e, dunque, della collettività).

Mi sta dunque dicendo che il mondo della cultura ha bisogno di giuristi e di economisti?
Certamente. Va detto però che se il profilo ideale degli economisti della cultura esiste, benché minoritario tra le professioni che interessano il settore del patrimonio culturale, l’idealtipo del giurista della cultura non esiste. È un campo che si ritaglia di fatto, ma non esiste nella nomenclatura delle professioni dei beni culturali; vi è, al più, il livello degli «amministrativi» che, però, è altro. L’errore che è stato commesso storicamente è considerare prevalenti le discipline afferenti all’area della tutela rispetto a quella della gestione del patrimonio culturale. E così abbiamo, sì, scienziati della tutela, classi di concorso universitario dedicate allo studio degli aspetti teorico-pratici del restauro, ma non abbiamo esperti di ingegneria culturale, ossia di gestione economica ed efficiente. Il Ministero della Cultura è stato inizialmente istituito per la migliore tutela del patrimonio culturale, non certo per gestirlo in maniera profittevole. Comprensibilmente, non era questa la priorità del legislatore del 1975. Si è aggiunta solo successivamente una funzione di valorizzazione, dagli anni Novanta-Duemila che, però, è stata intesa in termini di promozione dell’educazione della cittadinanza. Il che è sacrosanto. Ma così facendo si è dimenticato di rendicontare i costi e i ricavi di tali iniziative, ritenendo, erroneamente, che costi e ricavi potessero essere trascurati sull’altare della fruizione pubblica.

Nel contesto che descrive, potrebbe essere utile prevedere tra gli operatori del settore giuristi esperti di materie che direttamente coinvolgono la gestione e la valorizzazione del patrimonio artistico? 
Moltissimo. Per esempio: il tema dell’utilizzazione delle immagini è un tema che pochissimi conoscono; il risultato è che proliferano slogan e dogmi ideologici che non fanno il bene della Nazione.

A proposito di immagini, recentemente sono intervenuti due decreti ministeriali (161/2023 e 108/2024) che hanno regolamentato la riproduzione delle immagini dei beni culturali.
Con il d.m. 161/2023 si è adempiuto a un obbligo dell’art. 108 del Codice dei beni culturali rimasto inadempiuto per anni (il sesto comma sancisce la necessità che ogni Amministrazione pubblica preveda i minimi per la concessione delle riproduzioni delle immagini dei beni culturali e per la concessione degli spazi, Ndr), fissando le condizioni economiche minime su tutto il territorio nazionale sia per la concessione di spazi che per l’uso di immagini. Grazie a tale regolamento finalmente l’amministrazione pubblica sta guadagnando di più: siamo passati da circa 80mila euro nel 2021 a 420mila nel 2024 di ricavi derivanti dalla riproduzione fotografica dei documenti d’archivio. Similmente, per la concessione di spazi, siamo passati da 120mila euro del 2021 a oltre il doppio nel 2024. In totale, tra il 2021 e il 2025, gli archivi hanno incassato oltre un milione di euro. Peraltro tale previsione si allinea a quella presente nella maggior parte dei Paesi avanzati, ove a fronte di una gratuità per utilizzi personali delle immagini (è giusto che l’utilizzo sia gratuito, perché funzionale alla promozione della conoscenza), quando l’uso è lucrativo ci sono tutti gli elementi per mettere a reddito il patrimonio culturale.

Grazie per questa intervista, che contiene anche un messaggio di speranza per i laureati in Giurisprudenza che aspirano a lavorare nel settore dei beni culturali, ma che attualmente faticano a trovare un’occupazione.
Non riescono a trovarla perché non c’è il profilo adatto: loro studiano una cosa che non esiste (ancora) nella tassonomia delle professioni dei beni culturali. Basta leggere l’art. 9-bis del Codice dei beni culturali: interessa (e giustamente) la chimica o la fisica dei materiali, ad esempio, ma al di fuori di questi argomenti non vi è spazio per la statistica, il diritto, l’economia. Mancano la conoscenza e lo studio delle aree di potenziale redditività ed è proprio in quell’area che potrebbero lavorare i suoi studenti (laureandi in Giurisprudenza, Ndr), unendo peraltro teoria e pratica: c’è bisogno non solo di restauratori che si formino nei laboratori di restauro, ma anche di giuristi che si formino negli uffici amministrativi delle strutture che si occupano di beni culturali. Come negli istituti alberghieri o nei policlinici universitari: si studia cucinando; si studia curando. Così dovrebbe avvenire anche in archivi, musei e biblioteche.

Antonio Leo Tarasco

Laura Castelli, 29 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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