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Maurizio Francesconi, Alessandro Martini
Leggi i suoi articoliUna delle mostre del momento è «Rei Kawakubo/The Art of the In-Between», aperta fino al 4 settembre al Costume Institute, dipartimento del Metropolitan Museum di New York. È la prima mostra antologica dedicata alla fondatrice del marchio Comme des Garçons e ai suoi 40 anni di carriera che l’hanno vista eletta papessa assoluta della moda e vate di un pubblico alla ricerca di un’aura esclusiva e intellettuale. A due mesi e mezzo dall’apertura ha superato i 500mila visitatori e si avvia a emulare il successo riscosso da un altro maestro della moda contemporanea, Alexander McQueen, la cui mostra «Savage Beauty» nel 2011 aveva richiamato al Metropolitan (con lunghe e ordinate file davanti ai suoi ingressi) ben 661.509 visitatori. Altri 493.043 erano poi accorsi a Londra, al Victoria and Albert Museum (le grandi mostre di moda circolano, richiestissime, anche se in Italia non arrivano): numeri che hanno fatto balzare la mostra in testa alle classifiche delle più visitate del museo newyorkese, l’hanno resa la più visitata nella storia del V&A e ai primi posti della classifica mondiale compilata ogni anno da «Il Giornale dell’Arte» e «The Art Newspaper». Non è la prima volta che il Costume Institute raggiunge numeri impressionanti: entrambe curate da Andrew Bolton, «Manus x Machina: Fashion in an Age of Technology» nel 2016 ha staccato 752.995 biglietti mentre «China: Through the Looking Glass» nel 2015 ha raggiunto il record di 815.992 ingressi: la quinta di maggiore successo nella storia del Met. A dimostrazione di quanto la moda piaccia e richiami pubblico anche nelle sale dei musei.
All’estero la moda non soltanto fa record di visitatori, ma è oggetto di studio, è conservata ed esposta in archivi e musei dedicati, supportati e finanziati ai massimi livelli istituzionali. Sono proprio quei musei a essere la vetrina dei rispettivi sistemi nazionali della moda. E se New York ha il Costume Institute, Parigi può vantare il Galliera-Musée de la Mode de la Ville de Paris e Les Arts Décoratifs e Londra il Victoria and Albert. Da noi, invece, non esiste nulla di confrontabile: nel Paese del «Made in Italy» non si è mai istituito un museo «nazionale» dedicato alla moda sul modello di quelli delle tre altre capitali del fashion. È stato ripetutamente chiesto, invocato e anche promesso, ma ancora non possediamo una struttura di portata internazionale esclusivamente dedicato a una delle voci che maggiormente influiscono sulla nostra immagine, sul turismo dello shopping e sulla nostra bilancia commerciale.
La mostra dedicata a Rei Kawakubo, salutata come «mostra dell’anno» dai giornali di mezzo mondo, avrà altre probabili (non ancora confermate) tappe in Europa: ma non in Italia, finora. Perché, oltre a non organizzare mostre di livello internazionale, neanche le ospitiamo? Sul fronte della produzione, il più grande omaggio ad Armani si è tenuto al Guggenheim di New York, nel lontano 2001. Chi in Italia ha mai visto una grande mostra antologica dedicata a Moschino? L’immenso patrimonio industriale e creativo di Max Mara ha girato il mondo con la mostra «Coats! Max Mara, 60 anni di moda italiana»: tra 2006 e 2012 è andata a Berlino e Tokyo, Pechino e Mosca, ma non è mai arrivata a Milano. La mostra «Schiaparelli and Prada: Impossible Conversations» nel 2012 è stata concepita e realizzata dal solito Costume Institute (con il sostegno di Amazon), e lì si è fermata. Certo, anche in Italia qualche occasione di qualità c’è stata, a partire dall’ambiziosa esperienza della Biennale Arte/Moda di Firenze del 1996, a cura di Germano Celant. Diffusa dal Forte Belvedere, con l’allestimento di Arata Isozaki, ai musei della città, ha avuto una sola edizione. Più recentemente, il MaXXI di Roma ha accolto «Bellissima. L’Italia dell’alta moda 1945-1968» (2014-15, a cura di Maria Luisa Frisa, Anna Mattirolo, Stefano Tonchi) e Venaria Reale, dopo la grande «Moda in Italia. 150 anni di eleganza» per il 150mo dell’Unità d’Italia nel 2011, ha organizzato fino al 27 agosto «Jungle», dedicata all’evoluzione dell’animalier. Per il prossimo anno si annuncia, nel piano nobile di Palazzo Reale a Milano, «Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001» (22 febbraio-6 maggio 2018), a cura di Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi, promossa dalla Camera Nazionale della Moda Italiana che festeggia i suoi 60 anni. Una mostra sugli anni recenti, finalmente una riflessione ad ampio raggio tra nascita del «Made in Italy» e shock dell’11 settembre 2001. Ma, al di là di pur meritevoli iniziative, manca in Italia una programmazione complessiva, duratura, la sola capace di costruire e rappresentare un’identità forte, riconoscibile anche all’estero. Manca un luogo istituzionalmente deputato a parlare di moda, di ieri e di oggi, capace di confrontarsi con le grandi istituzioni internazionali. Manca un istituto che si assuma il compito di raccontare la moda come fenomeno culturale, artistico, economico, tecnologico e sociale, e che sia in grado di farlo parlando ai più diversi pubblici. Insomma, per quanto esistano numerosi spazi privati, spesso anche di grande qualità, manca un «Museo nazionale della Moda italiana».
Le responsabilità storiche Nonostante un indotto annuo stimato in 63 miliardi di euro, in Italia la moda non è considerata un produttore di cultura ma soltanto di prodotti. «Al contrario dell’arte, del design, del cinema, del teatro o del ballo, scriveva Andrea Batilla lo scorso gennaio su Linkiesta.it, la moda è confinata nelle fiere di settore, nelle sfilate chiuse al pubblico, negli eventi esclusivi da red carpet. In Italia non ha alcuna rispettabilità culturale a causa di colpe che vengono da molto lontano». A chi si deve questa responsabilità storica? Agli stilisti e alle case di moda, senza la volontà e/o la capacità di creare un vero sistema. Alle istituzioni statali e locali, ignare, talvolta ignoranti, spesso incapaci, prive di volontà e di mezzi. Anche alla stampa, più concentrata sul gossip che a rivendicare al settore un ruolo anche culturale. Ma la moda è cultura. Ed è anche industria e denaro. Tanto. Possibile che tutti parlino di «sistema moda» senza dimostrare di aver davvero capito quale valore aggiunto possa dare agli occhi del mondo (acquirenti e operatori in primis) un museo nazionale capace di inserire i prodotti di oggi in una prospettiva di lunga durata? In conclusione, che cosa si può fare, oggi?
Giuseppe Sala, sindaco di Milano da giugno 2016, non ha esitato a definire il Museo della Moda «uno degli atti più qualificanti del mio primo mandato». Intenzione che pare sia stata recepita dalla Camera della Moda. Il suo presidente, Carlo Capasa, si è dichiarato pronto a realizzarlo assieme al Comune di Milano; «anzi, ha detto, non possiamo esimerci dal farlo». Sembrerebbe esserci anche la disponibilità degli eredi di Anna Piaggi a donare il fondo della giornalista (3mila tra i famosi cappelli, gli abiti e i gioielli), come nucleo del futuro museo. Da febbraio, silenzio.
Roma da anni rivendica un proprio ruolo guida nell’alta moda, ma il Museo Boncompagni Lodovisi offre una visione parziale, seppur meravigliosa, con una collezione limitata agli abiti «couture» dei più noti marchi italiani. È Firenze, oggi, a poter rivendicare l’unico museo statale specificamente dedicato. Il Museo della Moda e del Costume di Palazzo Pitti è al momento quanto di più vicino a un museo della moda da un punto di vista storico-culturale e secondo una prospettiva internazionale, ma è da capire se il progetto troverà una sua concretizzazione. Alla sua attuale direttrice Caterina Chiarelli si deve un programma di acquisizioni intelligente, funzionale all’obiettivo (condiviso da Eric Schmidt, direttore della Galleria degli Uffizi che includono Palazzo Pitti) di rendere in due o tre anni la collezione di costumi e abiti già di proprietà del museo e tuttora alla ricerca di un’identità, un’istituzione confrontabile con il Met o il Victoria and Albert. Stefania Ricci, responsabile del Museo Salvatore Ferragamo di Firenze, ne riconosce l’impegno e la qualità della collezione, «grazie anche a importanti donazioni, come quella Ferré». D’altro canto, il museo fiorentino ha uno sguardo soprattutto verso la storia del costume mentre, sottolinea Romeo Gigli, «è indubbio che un Museo della Moda Italiana dovrebbe raccontare e rendere tangibile la creatività italiana che negli anni ’80 e ’90 ha determinato la visione dello stile nel mondo. Così potrebbe essere di grande stimolo per i nuovi designer. Musei e fondazioni privati sono certamente importanti ma sarebbe più interessante e contemporaneo poter immaginare mostre collettive in un museo nazionale, in uno spazio duttile, con allestimenti sempre variati e lontano da una formula immota e costrittiva». Proprio nella Galleria del Costume, in occasione di Pitti Immagine Uomo, lo scorso giugno si è inaugurata la mostra «Il Museo Effimero della Moda», prodotta da Fondazione Pitti Immagine Discovery in collaborazione con Gallerie degli Uffizi e Palais Galliera. In mostra, quasi 200 tra abiti e accessori da metà Ottocento fino ai giorni nostri, distribuiti in 18 sale. Uno sforzo ulteriore, secondo il direttore Schmidt, nella direzione di valorizzare collezioni e archivi. Ma i modelli internazionali rimangono lontani: sia i grandi centri di Parigi, New York e Londra, sia centri più recenti e innovativi come il MoMu di Anversa, capace in pochi anni (è nato nel 2002) di farsi promotore a livello internazionale della scuola belga contemporanea, che vanta protagonisti come Martin Margiela e Dries Van Noten. L’Italia è un Paese policentrico, oltre che campanilista. Lo conferma, con uno sguardo esterno, Valerie Steele, direttrice del Museum at the Fashion Institute of Technology (Fit) di New York: «Dal momento che l’Italia è stata uno dei centri della moda fin dal Rinascimento, appare piuttosto strano che non vi sia un vero Museo della Moda. Ma forse non è così sorprendente, alla luce della storia politica italiana e della sua unificazione soltanto relativamente recente. Ancora oggi, città e territori sono piuttosto distinti e Roma, Firenze e Milano si contendono il titolo di capitale della moda italiana, ciascuna volendo accogliere un museo della moda. Molti stilisti hanno preferito realizzare il proprio spazio piuttosto che lavorare insieme per un unico centro nazionale. Questo può, almeno in parte, far pensare a una mancanza di fiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche. Dopo tutto, se un museo nazionale deve essere istituito, chi può garantire, oggi, il sostegno continuativo del Governo nazionale o di mecenati privati?». Il tema, in effetti, non è certo stato al centro dell’agenda politica nazionale. Oggi il ministro Franceschini interviene nel dibattito (cfr. intervista qui sopra), dichiarando una «disponibilità di principio», ma sostanzialmente rilanciando la palla alle case di moda e ai soggetti privati variamente coinvolti. Sono moltissimi gli archivi e i materiali per nulla o scarsamente conosciuti o utilizzati, e forse disponibili nel caso di progetti forti e condivisi: da quelli di Walter Albini, delle Sorelle Fontana, di Romeo Gigli, di Iole Veneziani, Biki o Germana Marucelli a quelli di Roberta di Camerino o Krizia. Ad alcuni di questi, e a molti altri, il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo ha dedicato un portale (www.moda.san.beniculturali.it), nell’ambito del Sistema Archivistico Nazionale, ma quella spinta propulsiva iniziale di mappatura e di coordinamento sembra ormai esaurita. Non viene aggiornato dal 2012 e mostra grosse lacune, in un’ottica di censimento: non ci sono, ad esempio, né Versace né Max Mara. C’è invece il recente «We Wear Culture» sulla piattaforma Google Arts & Culture, tremila anni di storia della moda e del costume riuniti nella più grande raccolta online. Può condurre qualunque utente del mondo a scoprire le collezioni di moda dei musei internazionali, attraverso oltre 400 mostre digitali e approfondimenti per un totale di 30mila immagini, video e documenti, e quattro esperienze di realtà virtuale relative ad alcuni dei pezzi più iconici della storia della moda.
Milano, Roma, Firenze da anni rivendicano, ciascuna con un buon grado di legittimità, un proprio ruolo per ospitare un museo nazionale. Senza contare i molti musei, pubblici e privati, dedicati alla storia del costume e della moda, o a particolari aspetti e prodotti (le scarpe, i tessuti, gli ombrelli...) o, ancora, a marchi e stilisti. Nessun museo nazionale, però. Nulla che racconti con una prospettiva storica e istituzionale il mondo della moda italiana. Il nostro Paese, al di là di ogni retorica sul ruolo di capitale mondiale dell’eleganza, sul peso del «Made in Italy» nella bilancia commerciale, sulla posizione di Milano nello scacchiere internazionale delle sfilate del prêt-à-porter (l’haute couture attuale è ormai solo e soltanto a Parigi), non ha strutture, non ha politiche, non fa sistema. È così da anni. Cerchiamo di capire ragioni e prospettive con il contributo di esperti, giornalisti, operatori, curatori, stilisti.
La decana del giornalismo di moda (e non solo) italiana, Natalia Aspesi, riflette: «Forse è il fatto che siamo un Paese troppo ricco di grandi cose di valore a non averci ancora fatto capire l’importanza museale della moda. Senza contare che di fronte a preziose occasioni le si rifiuta. Dopo la morte di mia cugina Anna Piaggi, la sua collezione di duemila abiti era stata offerta al Comune di Milano che l’aveva rifiutata. C’era tutta la moda di Paul Poiret, gli anni ’40, ’50 e ’60, tutta l’alta moda e il prêt-à-porter, Lagerfeld, Chanel, tutto. Non ci sono più soldi per queste cose». Luca Missoni, che porta avanti la passione artistica di famiglia anche con collaborazioni con varie istituzioni (ad esempio con il Ma*Ga di Gallarate), suggerisce che, «nel caso in cui non si potesse aprire un vero e proprio museo della moda, pur auspicabile, sarebbe interessante pensare a un padiglione apposito all’interno, per esempio, della Triennale di Milano. Ma c’è bisogno del sostegno della politica, che invece da noi non ha mai visto la moda (anche) come un fenomeno culturale ma semplicemente come un sistema industriale». Le mancate risposte alle nostre domande da parte del Comune di Milano e della Camera Nazionale della Moda non fanno presagire decisioni in tempi stretti. Intanto Paesi concorrenti, più coscienti di noi dell’importanza culturale e sociologica della moda, ancora una volta ringraziano.