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Federico Castelli Gattinara
Leggi i suoi articoliLa Chiesa dei Santi Luca e Martina, capolavoro di Pietro da Cortona affacciato sul Foro Romano, è pochissimo conosciuta, perché la storia urbanistica del Campo Vaccino, come allora veniva chiamata quell’area, l’ha piano piano isolata. Le prime trasformazioni risalgono a Napoleone ma fu soprattutto sotto Mussolini, nel 1932, che l’apertura di via dei Fori imperiali le fece il vuoto intorno, aggravato dagli scavi archeologici svolti per il Giubileo del 2000. Sotto il Fascismo furono abbattuti tutti gli edifici e l’Accademia di San Luca si trasferì nell’attuale Palazzo Carpegna.
La chiesa, compresa tra il Carcere Mamertino, la Curia Iulia e l’Arco di Settimio Severo ai Fori, dai quali è separata da un notevole salto di quota, è rimasta ai margini, con l’abside rivolta verso via dei Fori Imperiali e la facciata ormai quasi invisibile. Eppure è l’opera più cara realizzata da Pietro da Cortona, che sborsò soldi di tasca propria e ci lavorò fino alla morte (fu fedelmente completata poi dai suoi allievi-collaboratori guidati da Ciro Ferri).
Nel corso della sua storia recente ha visto tanti restauri, a partire da quello della facciata del 1969. Pier Luigi Porzio, che ha diretto quelli di cupola e tamburo appena conclusi, ci lavora dal 1983. Nel 2007-09 gli ultimi interventi della Soprintendenza chiarirono con saggi e descialbi su stucchi e intonaci l’originaria cromia voluta dal Cortona, mettendo a punto una tecnica «a strappo» oggi riutilizzata per togliere le ridipinture. L’architetto voleva che la chiesa sembrasse interamente fatta di travertino.
Colpita da un fulmine, fu riparata e completamente ritinteggiata in tonalità più fredde da Carlo Buratti nel 1718-19, con gli aggetti color grigio-marmo e gli sfondati color dell’aria, un celestino allora di moda. Negli anni Trenta del Novecento ci pensò Gustavo Giovannoni a ricoprire tutto il primo ordine con una terra d’ombra. Ma sotto si conserva praticamente intatta l’originaria «materia che si fa colore», come l’ha definita il restauratore Roberto Bordin. È una malta di tonalità travertino che dalla base fino agli stucchi del lanternino diventa via via più luminosa, da un rosato caldo a un bianco assoluto. È ottenuta variando la percentuale di pozzolana, la grana di macinazione e la tecnica di stesura, ad esempio con un semplice arriccio per le zone d’ombra dei lacunari con i fiori in aggetto della cupola.
Oggi, grazie ai 450mila euro di Arcus, ritroviamo un capolavoro assoluto e raffinatissimo, dopo un cantiere che la formula «Aperti per restauri» ha reso visibile, didattico, non ostativo al normale uso della chiesa. E che andrebbe riproposto ovunque, dal momento che la finitura cortonesca sopravvive nascosta su gran parte della decorazione interna.
Restauro recente anche per le tre pale d’altare grazie al contributo di privati, la centrale che è una copia di Antiveduto Grammatica del San Giovanni Evangelista che dipinge la Vergine attribuito a Raffaello e le due laterali di Sebastiano Conca e Lazzaro Baldi. Il restauro è illustrato da un catalogo Gangemi, a cura di Pio Baldi, responsabile del procedimento, e Pier Luigi Porzio.
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