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Silvia Mazza
Leggi i suoi articoliPoi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida»: è alla polvere del tempo, che si accumula sulle tre figlie di don Fabrizio di Salina e sulle loro cose, l’immagine a cui Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo, 1896 - Roma, 1957) consegna la chiusura de Il Gattopardo (1958). Ed è nella polvere, in strati di polveri tenaci, nella craquelure sulla superficie dei dipinti, nelle efflorescenze saline degli intonaci e nelle foglie d’argento applicate a missione sulle boiserie che sembrava essere giunta l’ora del declino di Palazzo Valguarnera Gangi, dove Luchino Visconti girò la scena cult del valzer tra Claudia Cardinale e Burt Lancaster nella sua trasposizione cinematografica (1963) del romanzo siciliano. Invece la decadenza si interruppe quando nel 1995 subentrò per trasmissione ereditaria nella proprietà del palazzo (nel casato dal 1652) il principe Giuseppe Vanni Calvello di San Vincenzo, insieme alla consorte Carine, per metà lionese e per metà savoiarda, promotori e coordinatori del restauro integrale avviato in quello stesso anno. Episodio altissimo del tardo Barocco siciliano, «per la sua monumentale fuga di saloni tesa tra un singolare scalone a doppia rampa e un’altrettanto unica galleria a volta traforata» (come scrive Stefano Piazza in Architettura e nobiltà, i palazzi del Settecento a Palermo) è «una delle ultime dodici case dinastiche d’Europa a conservare integralmente gli arredi originali», ci dice la principessa. Ha ospitato re Edoardo VII d’Inghilterra, Vincenzo Bellini, Auguste Renoir, Gioachino Rossini, e qui Richard Wagner compose le prime pagine del «Parsifal». In una Palermo in cui erano in pieno fermento i processi di riqualificazione delle dimore signorili, tra il 1757 e 1772 anche il palazzo in piazza Croce dei Vespri, documentato già nel 1475, fu ampliato e interamente rinnovato per volontà di Pietro Valguarnera di Gangi, esponente di uno dei casati più antichi e prestigiosi dell’aristocrazia siciliana, di origine spagnola, che ne entrò in possesso sposando la nipote Marianna (l’Ucria del romanzo di Dacia Maraini). Per gli interventi, proseguiti dal figlio Giuseppe negli anni Ottanta, ci si avvalse di architetti di chiara fama, come Andrea Gigante e Giovan Battista Vaccarini, e artisti come Elia Interguglielmi, Gaspare Fumagalli, Giuseppe Velasco, Gaspare Serenario e Ignazio Marabitti, insieme a una folta schiera di maestri maiolicari, stuccatori, indoratori, intagliatori e tappezzieri. Ne uscì una delle più singolari opere del Rococò italiano: la volta traforata della Galleria degli Specchi, ricondotta a Gigante. Non si tratta, infatti, scrive ancora Piazza, di «due volte sovrapposte di cui la prima traforata e la seconda dipinta», ma di «una volta a padiglione traforata e sormontata da 15 calotte». Quasi un tentativo, è stato notato, di concretizzare la pittura di quadratura. A Gigante si deve anche un’altra delle migliori prove del Barocco siciliano: lo straordinario congegno scenografico dello scalone dal complesso gioco di rampe che invadono la corte porticata cinquecentesca e conducono al vestibolo. Quello in corso da vent’anni è un intervento di restauro integrale, che ha interessato gli 8mila mq del palazzo, dal consolidamento strutturale a 350 tra mobili, porte e boiserie, 75 quadri sopraporta, migliaia di pezzi di argenteria, centinaia di porcellane, cinque volte affrescate, i due pavimenti settecenteschi di Vietri del Salone da ballo e della Galleria, lo scalone monumentale ecc. Rifatti anche 400 mq (10mila mattonelle dipinte a mano) della terrazza, disegnata come per una villa suburbana. Con la media di un grande cantiere all’anno, costellato da interventi minori, i lavori sono ormai giunti all’85%; mancano i prospetti e un paio delle prime sale. È la storia di un’empatia con la dimora siciliana, quella della principessa e di questi restauri, che rievoca ancora l’autore de Il Gattopardo e il suo legame elettivo con la casa che gli aveva dato i natali, Palazzo Lampedusa, nella stessa Palermo, e della cui perdita (cfr. box a fianco) non riuscirà mai a rassegnarsi: «l’amavo con abbandono assoluto», scriverà nel capitolo «Ricordi d’infanzia» de I Racconti (1961). E in questi vent’anni tutta se stessa ha davvero messo Carine, che col principe risiede in Alta Savoia e a Palermo ritorna per sette mesi l’anno. È andata in cerca, racconta, «dei migliori restauratori e artigiani presenti sulla piazza, come i fiorentini Francesco Borsellino e Silvia Doro, i palermitani Francesco Bertolino per le ceramiche o Michele Sottile per i quadri. Per gli affreschi, prosegue, abbiamo fatto venire da Roma l’équipe di Marisol Burgio di Aragona, che ha restaurato la villa di Agrippina Minore rinvenuta durante i cantieri del Giubileo; mentre il recupero della vetrata liberty della serliana sul cortile l’abbiamo affidato a un’impresa tedesca, perché qui non sapeva più farlo nessuno». E per risarcire i pregiati marmi mischi, «per il Giallo sono andata personalmente a Castronovo di Sicilia, in provincia di Palermo, e a Trapani per il Libeccio». Raffinata anche la scelta di non sostituire gli specchi della famosa Galleria in cui nessuno potrà mai più guardarsi, perché quella superficie riflettente così degradata racconta ancora del set di Visconti e dei potenti fari allora impiegati. Il risultato finale è di un’armonia totale, come se si fosse individuato un tono unico e ad esso si fosse uniformato ogni singolo intervento nella straordinaria infilata di saloni, dalla neoclassica stanza da pranzo alla sala «celeste», col monetiere Moghul (’600) in ebano con intarsi d’avorio e pietre dure, fra i più belli del mondo, alla Sala da ballo e alla Galleria, su cui si aprono due deliziosi boudoir dipinti à chinoiserie, e dove uno stesso motivo floreale si distende con horror vacui sulle porte dipinte, sulle ghirlande di legno dorato, sulle tappezzerie di Aubusson, sul pavimento con i famosi gattopardi che hanno ispirato il luogo a Visconti, sull’affresco della volta e sui lampadari. Quello centrale (1750), a 102 braccia, è fra i tre più grandi usciti da Murano. «Milioni di euro spesi, senza alcun contributo pubblico, precisa Carine. Un intero patrimonio investito, con i redditi oggi contratti a un quarto di quelli iniziali. Dei quattordici locali affittati fino a qualche anno fa al piano terra, oggi ne restano solo quattro, per poche centinaia di euro in un centro storico abbandonato, che cade a pezzi». Tant’è che «per ultimare il restauro delle facciate, prosegue, siamo in una fase interlocutoria con un mecenate d’Oltreoceano». In passato, non senza grave danno agli arredi e apparati decorativi, si era aperto il palazzo anche a cerimonie ed eventi. Oggi ci si limita a visite su prenotazione per piccoli gruppi (costo di 35 euro a persona). Oltre a un amministratore, la persona a servizio è una sola, che si occupa anche della custodia, della portineria e della pulizia delle sale. È «furibonda» (termine che usa spesso) la principessa: «Ci hanno lasciati soli, non esiste nessun incentivo né sgravio fiscale. Alle volte avrei voglia di vendere tutto e non mettere più piede a Palermo».

La neoclassica Salle à manger ovale (1780-85) di Giovan Battista Cascione Vaccarini. Foto Silvia Mazza,

Lo scalone monumentale dal complesso gioco di rampe che conduce al vestibolo; il prospetto su piazza Croce dei Vespri di Palermo. Foto Silvia Mazza

La stanza celeste con il ritratto della principessa Giulia di Gangi, nonna dell’attuale proprietario, dipinto da Van Biesbroeck. Foto Silvia Mazza

La principessa Carine Vanni Calvello Mantegna di Gangi

La Galleria degli Specchi e la terrazza di Palazzo Valguarnera Gangi
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