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Emma Talbot. Courtesy: the Collezione Maramotti; Photo: TIWI Studio

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Emma Talbot. Courtesy: the Collezione Maramotti; Photo: TIWI Studio

Prove di resistenza e modi per costruire un futuro sostenibile. Dialogo con Emma Talbot

Talbot mette in scena un mondo colorato, quasi psichedelico, dai richiami di quella cultura hippie che le nostre generazioni hanno vissuto attraverso i film, le canzoni di quegli anni e i racconti dei genitori

Rossella Farinotti

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Spesso si pensa che il percorso di un artista che ha non solo seminato, coltivato, ma anche raccolto successi, sia meno complesso e più sicuro. Soprattutto se si tratta di un talento come quello di Emma Talbot (1969, Regno Unito), cui estetica e pensiero supportano una matrice quasi unica nel sistema dell’arte contemporaneo. Invece ogni passo, ogni successo, ogni avventura sul percorso, diventa un passaggio che puntella un puzzle che via via si compone e diviene più completo, più importante e che non deve essere dato per scontato. Negli ultimi anni Talbot ha creato immaginari in diversi luoghi tra Italia ed Europa (sconfinando oltre, fino in Cina), formando un tragitto preciso e riconoscibile e, costantemente, narrando a suo modo le criticità della società contemporanea. Nel 2022 l’artista è stata una delle protagoniste della 59esima Biennale di Venezia (come dimenticare l’enorme arazzo composto da più parti, densissimo di figure umane, scritti, rituali, al centro della sala delle colonne in Arsenale); nel 2019 ha vinto il prestigioso Max Mara Art Prize for Women e, nello stesso periodo, a Londra viene invitata per una mostra personale presso la Whitechapel Gallery. In questo percorso Emma Talbot ha coltivato un discorso che tratta diverse tematiche legate alla sua cultura, declinandole al mondo contemporaneo. Immaginari che dialogano con un universo post apocalittico, con la tragedia greca, con la rivincita di un’umanità prettamente femminile che, grazie all’utilizzo in particolare della materia tessile, assumono un’estetica molto personale, sono spesso i protagonisti dell’opera di Talbot che, di fatto, oggi non appaiono poi così lontani né dal futuro distopico immaginato dall’artista, né tantomeno da un passato catastrofico dove sacrifici e sacrilegi erano mezzi per giungere a un equilibrio.

Talbot mette in scena un mondo colorato, quasi psichedelico, dai richiami di quella cultura hippie che le nostre generazioni hanno vissuto attraverso i film, le canzoni di quegli anni e i racconti dei genitori. Dalla cultura pop dei figli dei fiori a Gustav Klimt, toccando anche Gauguin, la pittrice inglese si lascia ispirare restituendo un’estetica che richiama a pieno quei concetti di pace, di vividezza dei rapporti umani, della forza superiore dell’universo femminile che ha origini sin dalla tragedia antica, per stratificarsi in ogni singolo momento (personale, sociale, politico) della vita quotidiana di ogni donna e di ogni essere umano pensante che ambisce a un mondo migliore. La natura. La fantasia. I dipinti, le sculture tessili, i disegni, le scritte ricorrenti. Il sole la luna, il rosso, il rosa, il viola, i verdi. Questi sono alcuni dei paradigmi personali che Talbot ricuce, disegna, dipinge con un ritmo vivace, continuo, mostrandoli universali e aderenti a tante realtà, applicabili a diverse vite e approcci al reale che, a volte, può evadere nell’immaginario fantasioso come strumento di sopravvivenza. Dopo il prestigioso premio di Max Mara e la successiva mostra alla Collezione Maramotti con una residenza dalla durata di sei mesi, Emma decide di fermarsi in Italia, di rimanere a vivere in un paese vicino, ma diversissimo, dal suo, dalla Gran Bretagna. Da qui inizia un percorso lavorativo che la porta a collaborare e creare mostre dalla forte matrice europea, tra Kunsthalle e luoghi meno istituzionali, tra gallerie e siti speciali, come teatri ottocenteschi dove mette in scena episodi del passato declinate al presente storico. La sua cultura classica si evince negli episodi che spesso Emma Talbot riporta in materiali recuperati e combinati con quelli artigianali, con una particolare attenzione al tessile, il suo timbro forse più riconoscibile insieme alle figure femminili (sia disegnate che rese in sculture morbide) che appaiono attive, in movimento e in azione, come guerrigliere nell’atto di difendersi o attaccare. Queste figure sono legate a un contesto dove la natura ha quella forza primordiale che tutto accompagna e protegge. Questi episodi e narrazioni vengono ogni volta proposti dalla Talbot sotto focus tematici diversi, a comporre un’unica narrazione storica.

Nel 2025 in Danimarca è protagonista della mostra dal riflessivo titolo Are You a Living Thing That Is Dying or a Dying Thing That Is Living, presso il Museo Copenhagen Contemporary. L’anno prima, nel 2024, presso la Kunsthalle di Giessen, intraprende il viaggio dal titolo A Journey You Take Alone, emblematico e significativo tanto da pensarlo universale, per ognuno di noi. Qui le protagoniste sono sculture di donne che appaiono come gravide, accovacciate su grandi piattaforme, legate da corde e tessuti, accompagnate da ruote e altri oggetti. Emma Talbot inventa scenari dove anche piccoli esseri morbidi come cuscini vengono addomesticati da una realtà dura che, attraverso il colore vivo e il suo modo di creare le cose, può però essere affrontata.

Nel 2023 inaugura The Irreplaceable Human al Louisiana Museum, sempre in Danimarca. Tutto sommato, racconta Emma Talbot, “l’essere umano non può essere sostituito” perché dunque non lavorarci sopra? Ancora nel 2023 le mostre In the End, the Beginning (Alla fine, l’inizio), a Berlino, The Human Experience in Norvegia e, poco prima, in CinaOggi alcune opere e installazioni di Emma sono in mostra presso un altro luogo speciale, il Museo Compton Verney, nel mezzo della campagna inglese. Qui Talbot ha creato un’avvolgente installazione realizzata in seta di 11 metri, che si intreccia intorno allo spazio della galleria, accompagnando il visitatore in un denso viaggio sulla vita, dal concepimento alla morte. Ancora una volta il titolo è chiave fondamentale per la comprensione di questo viaggio: How We Learn To Love. L’artista ci suggerisce di partire dal passato - dalle nostre origini - per comprendere e affrontare il presente, imparando ad amare.

Il magazine “The Guardian” le ha dedicato un articolo in cui si raccontano le ultime esperienze di Talbot, declinate al ruolo dell’artista nella società odierna. Qui l’artista dichiara che ha paura di ciò che accade e che il lavoro è un riflesso di questo sentimento. Per questo ogni elemento, ogni creazione e immaginario che Emma Talbot mette in scena, pone il pubblico in relazione con un contesto che va indagato, capito e combattuto. Così come quei soggetti e quell’etica che non si placano mai, invadendo grandi spazi tessili e dipinti con la carica tenace che un’artista così sa apportare in maniera oggettiva.

In occasione di questo attivissimo percorso e dell’ultima mostra inglese, ho posto a Emma Talbot quattro domande.

Cara Emma, in ogni mostra di questi ultimi anni hai dato titoli forti, che sono diventati un marchio di fabbrica del tuo pensiero e del tuo approccio all'arte e alla realtà, come per indicare al pubblico, alcuni elementi chiave per comprendere il tuo lavoro e anche il mondo in cui viviamo. Quindi, in che modo i titoli influenzano le tue opere, o in che modo le tue opere influenzano i tuoi titoli?

E.T. Nel mio lavoro utilizzo un mix di testo e immagini per trasmettere le mie idee, attraverso dipinti su seta, disegni, sculture e animazioni. Il lavoro si basa sempre sull'esperienza umana ed esplora cosa significhi essere vivi, in questo momento storico, date le condizioni dei nostri tempi. Le opere hanno esaminato il nostro rapporto con la natura, l'ecologia e il clima, la tecnologia, Internet, le strutture di potere, la guerra, il femminismo, l'amore, la maternità e le connessioni con altre specie.  Utilizzo una combinazione di riflessioni interiori e personali e questioni urgenti che caratterizzano il nostro contesto contemporaneo. I titoli delle opere o delle mostre sono solitamente selezionati dai testi presenti nelle opere stesse. Scrivo tutti i testi personalmente. Di solito si tratta di brevi riflessioni poetiche o domande che aprono gli argomenti trattati nell'opera allo spettatore.

Sia nelle tue sculture che nei tuoi dipinti e disegni, i tuoi personaggi identificabili e straordinari sembrano emergere, ergersi, elevarsi al di sopra del contesto, come se fossero in una situazione di lotta o profetica. È un messaggio che vorresti condividere?

E.T. La figura è solitamente una donna senza volto, dai capelli fluenti. È una rappresentazione di me stessa, ma vista dall'interno, piuttosto che dall'esterno. Questa figura è sempre in ricerca. Non ha volto perché non riesco a vedere il mio quando guardo il mondo. A volte la figura ha più arti, perché sta facendo più cose contemporaneamente. In questo senso la figura agisce come una sorta di avatar, che guida lo spettatore attraverso le narrazioni dell'opera. A volte mi sono proiettata in un futuro immaginario in cui la figura è anziana, oppure ho incluso eventi come la nascita (la mia o quella di qualcun altro). Nel lavoro in 3D cerco spesso di realizzare fisicamente qualcosa che non è tangibile, per dare una presenza fisica a un'idea. Il ruolo della figura è quello di aiutare a trasmettere le idee. Lei cerca spesso di riequilibrare un mondo sbilanciato, o di trovare speranza in un mondo instabile.

Guardare e assorbire le tue opere è molto utile per comprendere la nostra epoca contemporanea e, in qualche modo, per affrontarla. Per trovare un modo per sopravvivere. Pensi che le tue creazioni possano essere strumenti per affrontare la realtà?

E.T. Gli scenari rappresentati nelle opere riguardano spesso la ricerca di modi per costruire un futuro sostenibile, per sopravvivere. Credo che rappresentino anche una forma di resistenza alle strutture di potere inique, mettendole in discussione e cercando di trovare speranza di fronte alle difficili questioni contemporanee. Le opere possono essere fantasiose, ma sono sempre radicate nella realtà e nella complessità del mondo contemporaneo. Viviamo in tempi così strani, che cambiano rapidamente e, oltre ad essere preoccupanti, sono anche molto interessanti da mettere in discussione e affrontare nell'arte.

Negli ultimi anni stai lavorando molto duramente, pensi che vivere in Italia ti stia aiutando a concentrarti su questo percorso?

E.T. Adoro stare in Italia, anche se non saprei dire esattamente perché. Trovo che sia un Paese affascinante e ho incontrato tantissime persone brillanti. Mi trasmette un senso di calma e concentrazione, soprattutto nel mio studio, ma anche di eccitazione. Mi sembra di non averne mai abbastanza di stare qui. È piuttosto impegnativo trovarsi in un altro Paese, impararne la cultura e comunicare in un'altra lingua, ma questo mi stimola

Rossella Farinotti, 20 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

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