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Interno Fabbrica, Opera Luigi Tola

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Interno Fabbrica, Opera Luigi Tola

Quando l’arte entra in fabbrica: l’eredità radicale di Luigi Bonotto

L'imprenditore fece dell’arte una parte integrante della propria vita e della propria azienda attraverso un dialogo costante tra creatività, impresa e cultura contemporanea

Elisa Carollo

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Nelle colline di Molvena, un angolo rurale del Veneto, si è sviluppata non solo una delle storie manifatturiere del made in Italy piú interessanti, ma, soprattutto, una straordinaria vicenda di collezionismo e mecenatismo illuminato, in cui la passione per l’arte si è trasformata organicamente in una vera cultura d’impresa, fondendosi con la vita e intrecciandosi completamente con la pratica imprenditoriale. Con questo articolo rendiamo omaggio a quella storia singolare e al suo protagonista centrale, l’imprenditore tessile, collezionista, innovatore creativo e mecenate Luigi Bonotto, scomparso all’età di 84 anni il 19 novembre, lasciando in eredità un patrimonio culturale che intreccia Fluxus, poesia visiva e lo spirito stesso del made in Italy. Questo tributo nasce da un’intervista registrata nel 2017 per una tesi di laurea dedicata a casi esemplari di mecenatismo illuminato e corporate art nella regione.

La Fondazione Bonotto è stata istituita nel 2013 per promuovere la Collezione Luigi Bonotto che, dai primi anni Settanta, ha raccolto un vasto insieme di opere, registrazioni audio e video, manifesti, libri e riviste degli artisti Fluxus e dei movimenti verbo-visivi internazionali nati dalla fine degli anni Cinquanta in poi. Il risultato è una collezione straordinaria, costruita in oltre quarant’anni, composta da più di quindicimila documenti, molti dei quali donati direttamente dagli artisti. Soprattutto, essa testimonia le fitte e continue relazioni personali che Luigi instaurò con quegli artisti, che accolse e sostenne, facendo dell’arte una parte integrante della propria vita e della propria azienda attraverso un dialogo costante tra creatività, impresa e cultura contemporanea.

Luigi Bonotto. Photo Piero Viti

La formazione di Luigi Bonotto fu decisiva. L’azienda di famiglia produceva cappelli, ma negli anni Cinquanta i cappelli non erano più una necessità quotidiana, così il padre lo incoraggiò a imparare qualcosa di nuovo nel settore tessile. Studiò alla scuola tessile e, spinto dalla curiosità, frequentò anche l’Accademia di Belle Arti di Venezia.

Lì divenne allievo del celebre artista italiano del dopoguerra Emilio Vedova e iniziò a frequentare intellettuali e artisti, un ambiente che contribuì a formare una mentalità più aperta e influenzò chiaramente il successo futuro della sua azienda. Favorì una cultura imprenditoriale orientata alla creatività, alla sperimentazione e all’innovazione, una sorta di “ricetta segreta” che trasmise ai figli, arricchita dagli artisti che li circondavano durante la loro crescita. Da questa base nacque più tardi un’altra innovazione — o meglio, una retroinnovazione — con la “Fabbrica Lenta”, che aiutò l’azienda a restare competitiva nel mutare del panorama socio-economico.

Luigi rimase poi a insegnare alla scuola di Valdagno, producendo i primi campionari che inizialmente vendeva solo come disegni. Ben presto capì che avrebbe potuto guadagnare di più costruendo una vera fabbrica, unendo competenza tecnica e influenze artistiche e culturali che aveva assimilato e continuava a coltivare. Erano gli anni Settanta, quando giganti come Lanerossi e Marzotto erano già in crisi. Eppure Bonotto comprese che la crisi del tessile offriva un’opportunità: i migliori artigiani e maestri erano improvvisamente disponibili e macchinari di alta qualità venivano venduti a prezzi ribassati.

Mentre altri chiudevano, i Bonotto investirono — suscitando ancora una volta l’accusa di essere un folle. Fu l’inizio di un’azienda che oggi fornisce tessuti d’alta qualità ad alcune delle principali maison del mondo e che dal 2016 fa parte del Gruppo Zegna. “Sapevo fin dall’inizio che dovevo circondarmi di un certo tipo di persone”, raccontava Luigi. “I migliori artigiani, i grandi maestri tessili che si erano resi disponibili. Puntare sulla qualità, sul sapere artigiano, che è già cultura in sé. Mentori del fare — specialisti pronti e aperti a confrontarsi con gli artisti che passavano di qui, in uno scambio fertile che arricchiva sia la ricerca artistica sia la produzione.”

Fu proprio questo pensiero creativo — assorbito dagli artisti e poi trasmesso ai figli Giovanni e Lorenzo — a permettere all’azienda di sopravvivere. Mentre molte imprese tessili italiane negli anni Novanta e Duemila soccombevano alla competizione globale su velocità e prezzo, la famiglia Bonotto adottò quello che definisce il modello della “Slow Factory”: telai tradizionali, maestri artigiani e produzioni a basso volume e alto valore che prosperano ancora oggi nel mercato del lusso internazionale. Rifiutando la standardizzazione, Bonotto trattò i tessuti come la sua tela per espressioni materiali di cultura, artigianato e arte — il suo vero elemento distintivo nella sfera del lusso globale.

Interno fabbrica, Opere di vari autori

In un’epoca in cui l’arte d’impresa è sempre più diffusa ma spesso affrontata come marketing o responsabilità sociale — parte di una strategia aziendale — la storia di Bonotto ha sempre mantenuto una forte connessione concettuale e fisica tra arte e industria.

“Luigi ci ha insegnato che anche una manifattura può diventare uno spazio sociale in cui l’arte è parte del lavoro quotidiano e non uno status ornamentale”, ha raccontato Giovanni Bonotto a The Observer dopo la scomparsa del padre. “La sua intuizione fu far coesistere una fabbrica tessile e una fondazione d’arte negli stessi spazi produttivi, per mostrare che Arte e Vita sono totalmente integrate.” Giovanni porta oggi avanti quell’eredità, intrecciando strettamente azienda e arte.

“Oggi tutti parlano di aziende che investono in arte, ma nella maggior parte dei casi è solo arte applicata”, spiega Patrizio Peterlini, storico direttore della fondazione, osservando come spesso si tratti l’azienda come un paziente portato dallo psicoanalista, da cui ci si aspetta una cura. Ma questo non è il ruolo dell’arte. Nella migliore delle ipotesi funziona per una linea di prodotti o per una stagione, come nelle collaborazioni alle fiere, ma nulla di più.

Per Luigi, la cultura era il vero motore produttivo. La sua strategia non era guidata dal mercato ma dalla convinzione Fluxus che “La tecnica è essenziale, ma la tecnica senza cultura è vuota.”

Molte aziende chiedevano informazioni sui piani strategici di Bonotto S.p.A., supponendo che l’arte fosse parte di una strategia d’investimento formale. In realtà non c’era alcuna strategia, ma solo una fusione vissuta di arte e vita che riecheggiava la filosofia Fluxus e modellava organicamente l’identità dell’azienda. “Il ‘modello Bonotto’ è forse unico, forse irripetibile o comunque raro. È nato spontaneamente. E per questo non può diventare un ‘modello’ da replicare,” osserva Peterlini. “È una bellissima storia di una passione personale — la passione di Luigi e poi condivisa dall’intera famiglia— che ha generato relazioni e amicizie che sono poi confluite naturalmente dalla sua vita nella vita dell’azienda, semplicemente perché ospitava qui gli artisti.”

Interno fabbrica, Opere di vari autori

Luigi si rese conto della portata di ciò che aveva accumulato solo quando si trasferì in una nuova casa. Da quel momento emerse la necessità di catalogare tutto: creare un archivio e, da lì, una fondazione capace di preservare e condividere questo patrimonio. Solo dopo iniziò ad acquistare consapevolmente opere e libri, individuando lacune da colmare. Questo passaggio è ciò che rende la collezione una delle pochissime davvero coerenti e coese — un insieme che funge da grande riferimento per aree specifiche della storia dell’arte.

Oggi la collezione è ospitata nei ventimila metri quadrati di Bonotto S.p.A. — negli uffici, lungo i reparti produttivi e nei magazzini dove si realizzano tessuti di lusso, dai tessuti per moda e design ai tessuti artigianali a produzione lenta utilizzati dai grandi marchi internazionali.

Peterlini riconosce che conservare le opere in mezzo al ritmo quotidiano della fabbrica comportava dei rischi, ma Luigi insisteva che dovessero restare lì perché i lavoratori incarnavano il valore stesso espresso dalle opere. Se qualcosa si danneggiava, diventava semplicemente parte della vita di un’opera vivente, perfettamente in linea con il pensiero Fluxus. Le opere appartenevano al luogo da cui erano nate, ciò che Luigi chiamava la “grotta di Lourdes”. Dovevano restare dove il miracolo era avvenuto, non in un white cube distaccato.

“All’inizio la paura era dei lavoratori”, ricorda Luigi. “Pensavano che tutto sarebbe stato chiuso e trasformato in un museo, come Bisazza fece con una delle sue vecchie fabbriche. Ma furono rassicurati subito. Col tempo iniziarono a fermarmi nei corridoi chiedendo cosa fossero questa o quella opera.”

Questa integrazione rende molto più semplice portare i clienti a Molvena — nonostante l’isolamento — perché la visita somiglia più all’esperienza di un museo che a un appuntamento in showroom a Milano. Qui i clienti possono vedere non solo il prodotto ma anche l’ambiente, il processo, la cultura e la storia che lo generano, riconoscendo che la natura “artistica” dell’azienda non è una facciata ma l’anima stessa del lavoro. Nel magazzino, un’edizione di Maurizio Nannucci con la scritta “Art as a social environment” sintetizza ciò che il mondo Bonotto è diventato.

Luigi Bonotto e Yoko Ono

Le reazioni locali alle iniziative Bonotto sono sempre state limitate. Anche quando organizzò una mostra a Bassano nel 2000, la risposta fu tiepida. Quando ne parlammo allora, Luigi attribuì questa indifferenza a un conservatorismo culturale radicato, modellato dalla Chiesa e da una mentalità imprenditoriale contadina, autosufficientista, che portò molti imprenditori veneti a considerare la cultura come superflua — una tendenza rafforzata dall’uso strumentale dell’arte durante il fascismo. Un atteggiamento che, secondo lui, li aveva limitati e che fu una delle cause del declino produttivo con l’arrivo della globalizzazione.

“Questo è ciò che li ha feriti, che li ha paralizzati. Parlano di crisi da anni. Quale crisi?” affermò Bonotto. “Una vera crisi c’è stata negli anni Sessanta, ma il Veneto continuò a produrre. Gli artigiani sapevano reagire. Avevano tecnica straordinaria ma anche immaginazione, la capacità di trovare soluzioni, cambiare, innovare.” La flessibilità — questa continua capacità di innovare — era, per lui, lo spirito del made in Italy e una delle sue forze più fraintese.

Durante la nostra interlocuzione, riflettemmo anche su come le abitudini culturali fossero cambiate in Italia. Negli anni Sessanta e Settanta era naturale per imprenditori e ceti colti frequentare ambienti culturali, ospitare artisti e scambiarsi idee — un clima fertile che riecheggia nei racconti di Ennio Brion a Milano. Alla fine degli anni Settanta e soprattutto negli anni Ottanta emerse però un nuovo modello di “imprenditorialità predatoria”, basato esclusivamente sul profitto, e la cultura iniziò a essere considerata superflua.

“Con la cultura non mangi, non compri il pane. Mi consideravano strano, circondato da persone ancora più strane, a perdere tempo con cose inutili invece di concentrarmi sull’azienda e sul ‘fare soldi’”, ricordava Luigi. “Eppure siamo sopravvissuti; questo modello è quello che ha funzionato, mentre tutti gli altri hanno chiuso.”

Bonotto e Higgins

Oggi la Fondazione promuove Fluxus e la Poesia Concreta, Visiva e Sonora attraverso mostre, prestiti e collaborazioni con musei, fondazioni, archivi, fiere ed eventi culturali. La sua missione è raccontare la storia degli oggetti e della Collezione, profondamente intrecciata con quella del suo fondatore, e allo stesso tempo alimentare nuove conversazioni tra arte, produzione industriale, artigianato e cultura contemporanea. Questo include la digitalizzazione integrale dei documenti e la loro libera accessibilità online, creando una reale diffusione globale. L’archivio è straordinariamente vasto e la sua catalogazione ha richiesto anni di lavoro.

Tra i materiali conservati vi è la singolare storia di quello che sarebbe poi diventato il celebre “Intermedia Chart” di Dick Higgins, un diagramma pionieristico che spiega la realtà dell’arte transmediale e intermediale contemporanea. Come racconta Bonotto, in realtà nacque come la “Molvena Chart”, creata da Higgins per descriverlo attraverso un diagramma che superasse le barriere linguistiche. Fu così efficace che Higgins in seguito lo riprodusse al computer e lo inserì nelle sue pubblicazioni, dove divenne un caposaldo della storia dell’arte.

Parallelamente, la Fondazione promuove il lavoro artistico e intellettuale commissionando installazioni e programmi curatoriali, curando pubblicazioni — riviste, libri, cataloghi, materiali stampati e edizioni digitali — e organizzando mostre, seminari e conferenze in cui giovani artisti e curatori possono lavorare direttamente sui materiali della Collezione.

Ciò che rende il caso Bonotto così raro è che rimane uno dei pochi esempi profondamente radicati di mecenatismo illuminato, in cui un’azienda non usa la cultura come strumento ma la genera, e in cui produzione e pratica culturale operano come un’unica entità integrata. Nel percorso di Bonotto, arte e cultura non sono mai stati investimenti ma una missione sincera nata dalla passione, cresciuta in relazioni, ricerche condivise, scoperte e, soprattutto, scambi umani. È stato un cammino in cui arte e vita si sono fuse, evolvendo in un progetto culturale che a sua volta ha rafforzato l’azienda stessa, modellandone metodi, identità e visione. In questo senso, l’intera storia Bonotto diventa un’unica “Opera Totale”, che, come Luigi Bonotto amava dire, è il vero miracolo.

Elisa Carollo, 12 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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