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Quel pasticciaccio brutto di Sijena

Roberta Bosco

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La sentenza che obbliga la Catalogna a restituire le opere reclamate dal monastero aragonese potrebbe costituire un pericoloso precedente

Nel 1983 e nel 1992 la Generalitat de Catalunya, il Governo regionale autonomo, acquistò dalle suore di San Giovanni del monastero di Santa Maria di Sijena (Huesca), 56 opere e oggetti d’arte per un valore complessivo di 210mila euro. L’operazione venne ripetuta nel 1994, quando le suore vendettero direttamente al Mnac, il Museu Nacional d’Art de Catalunya, altri 41 pezzi per 89mila euro. Più di vent’anni dopo questi acquisti sono stati dichiarati illegali da una sentenza che, in base alla Legge del Patrimonio Storico del 1985, considera le opere protette e non vendibili dal 1923, anno in cui il monastero fu dichiarato monumento nazionale. 

Nonostante la sentenza, emessa da un tribunale di primo grado, sia già stata impugnata, il giudice ha obbligato le istituzioni catalane a restituire provvisoriamente al Governo aragonese, da cui dipende il monastero, le 97 opere, delle quali 53 si conservano nel Mnac e 44 nel Museu de Lleida (Lérida). Non c’è stato ricorso possibile e quando sembrava che la polizia sarebbe entrata nei musei incriminati, la Generalitat ha deciso di consegnare le 53 opere attualmente non esposte (pale d’altare, calici, pitture murali, cucchiai, ceramiche e libri), conservate nelle riserve del Mnac che, lo ricordiamo, è uno dei principali e più visitati musei del Paese, ospitato nel grandioso Palau Nacional, sulla collina del Montjuïc. Per il momento la Generalitat non ha invece restituito le più importanti, esposte nel museo di Lleida, perché formano parte del Patrimonio catalano catalogato.

Il problema fondamentale è che esistono molti esempi di compravendita di opere conservate in edifici dichiarati monumento nazionale e quindi la sentenza potrebbe costituire un pericoloso precedente e aprire innumerevoli contenziosi.

È il caso della cancellata della cattedrale di Huesca, protetta dal 1924, venduta all’Opus Dei nel 1969; degli stalli del coro del monastero di Santa Clara de Astudillo (Palencia), monumento dal 1931, che furono inviati negli Stati Uniti; o degli affreschi di San Baudelio di Berlanga (Soria), un edificio protetto dal 1917, che finirono disseminati tra Boston, New York, Indianapolis, Barcellona e Madrid. «In tutti i musei spagnoli ci sono opere in questa situazione», assicura Albert Velasco, conservatore del Museu de Lleida, dove si espongono le opere che la Catalogna è decisa a conservare. Tra queste spiccano i sepolcri monumentali delle badesse del monastero e i quattro frammenti scolpiti in alabastro della pala d’altare dedicata a Sant'Anna, sopravvissuta all’incendio del 1936. «Il museo di Lérida racconta la storia comune di un territorio di frontiera. Ogni opera è al servizio di questo discorso. Sono opere insostituibili, imprescindibili per non spezzare la storia dei legami politici, culturali ed economici tra l’Aragona e la Catalogna», si giustifica Velasco.

Molti vedono in questa complicata vicenda un ulteriore attacco politico alla Catalogna, che ha già avviato la cosiddetta «disconnessione dalla Spagna». Intanto i principali esperti si sono pronunciati contro il trasferimento delle opere che a Sijena non godrebbero della cura e della sicurezza necessarie. Il Monastero di Sijena, situato nella località omonima di 150 abitanti, durante i fine settimana accoglie poco più di una ventina di visitatori.

Roberta Bosco, 07 settembre 2016 | © Riproduzione riservata

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