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Refik Anadol, «Living architecture: Gehry», 2025, Guggenheim Bilbao

© Guggenheim Bilbao

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Refik Anadol, «Living architecture: Gehry», 2025, Guggenheim Bilbao

© Guggenheim Bilbao

Refik Anadol: «Il mio software è il Dna della creazione»

Con «Living Architecture: Gehry», l’ultima opera dell’artista multimediale americano, il Guggenheim Museum di Bilbao inaugura una nuova serie in situ dedicata alle installazioni contemporanee concepite e create in interazione con lo spazio in cui sono allestite

Fino al 19 ottobre il Museo Guggenheim Bilbao presenta «in situ: Refik Anadol», un’innovativa mostra realizzata con l’Intelligenza Artificiale e ispirata all’architettura del Museo con il sostegno di Euskaltel come partner tecnologico e di Google Cloud come collaboratore. L’esposizione inaugurale di «in situ», curata da Lekha Hileman Waitoller, presenta «Living Architecture: Gehry», un’opera immersiva, architettonica e multisensoriale di Refik Anadol (Istanbul, 1985), artista multimediale di fama internazionale e pioniere dell’estetica dell’Intelligenza Artificiale. Anadol vive a Los Angeles e dirige il Refik Anadol Studio (Ras), che si colloca all’avanguardia dell’arte algoritmica e della narrativa dei dati.

Quale evento ha scatenato la sua vocazione e guida la sua carriera?

Sono cresciuto con uno zio chirurgo specializzato in trapianti. A casa rispondevo al telefono e la gente mi diceva: «Tuo zio mi ha salvato la vita!». Da allora ho sempre avuto un grande rispetto per la scienza medica. Ho sviluppato una passione per le neuroscienze: capire la mente e il modo in cui percepiamo la vita. Credo che il lato curativo del mio lavoro derivi dal desiderio di creare uno spazio sicuro che guarisca la mente e l’anima. Questa sensazione è sempre stata presente nel mio lavoro e credo di stare migliorando. Sono anche cresciuto con mia zia, ipovedente, aveva solo il 10% di vista. Mi chiedeva sempre: «Che cosa vedo? Che cosa sto leggendo? Che aspetto ha?». Dovevo sempre descriverle con attenzione il mondo che la circondava. Probabilmente è per questo che ho iniziato a chiedermi che cosa esiste al di là della realtà.

Lei ha frequentato il programma Design Media Arts presso l’Università della California, Los Angeles (Ucla), dove ha conseguito un Master of Fine Arts (Mfa). Quando si è detto: «Posso creare immagini con i nuovi media digitali»?

Quando mia madre comprò un computer, iniziai a programmare su Commodore e a giocare, permettendomi di creare mappe, muri. Era tutto molto interessante per un bambino. Si può mettere un muro qui, una torre là, e chiedersi se sia possibile camminare attraverso il cemento. Questo interesse si è ovviamente sviluppato nel tempo. L’Intelligenza Artificiale è uno degli strumenti che abbiamo a disposizione per aiutarci a trovare le risposte. Se la portiamo nel campo dell’architettura, il futuro sarà molto stimolante.

Qualche artista l’ha influenzata? Ha dei mentori o dei modelli di riferimento?

Il film «Blade Runner» rimane una delle mie principali fonti di influenza. Quando l’ho visto, diversi anni dopo la sua uscita nel 1982, è stato uno shock: la tecnologia è presente negli edifici, le facciate parlano, immaginano e comunicano; ci sono logiche cibernetiche, umanoidi nella città... Nella visione del regista Ridley Scott, la città è intelligente. Ma quando ho confrontato questo universo futuristico con la realtà di Los Angeles, non era così. Da allora ho continuato a sognare. Non appena ho iniziato a giocare, mi sono chiesto: perché le pareti, il soffitto e il pavimento sono identici? Perché non cambiano? Così ho fatto ricerche su Frank Gehry, Zaha Hadid, Norman Foster, Toyo Ito, Antoni Gaudí... Amo questi progettisti che creano capolavori architettonici in cui viviamo. Penso che il Guggenheim Bilbao sia una scultura, non solo un museo. Questo edificio comunica con il mondo. Quando ci si trova in questo spazio, che ospita la mia installazione, si capisce che non è una normale sala espositiva. Non ci sono pareti verticali parallele! Frank Gehry è il mio eroe. A Los Angeles, la prima cosa che vedo è il suo edificio, la Walt Disney Concert Hall.

Refik Anadol. © Efsun Erkilic

Nella storia dell’arte, l’invenzione di una nuova tecnica ha spesso segnato la nascita di uno stile o di un movimento artistico: dall’affresco a tempera al tubetto di vernice che ha permesso agli artisti di uscire dallo studio e dipingere all’aria aperta, come nel caso degli impressionisti. Lei utilizza algoritmi di apprendimento automatico basati sui dati, che sostituiscono la matita o il pennello, la mano dell’artista, nel senso tradizionale del termine. Pensa che le tecnologie digitali rivoluzioneranno il modo di fare arte?

Penso di sì. Non so se cambieranno l’arte, ma creeranno nuovi media. Non credo che le tecniche attuali siano destinate a scomparire. La pittura, la scultura, le arti dello spettacolo, il cinema e l’architettura sono ben radicate e spero che non scompariranno mai. Ma credo che stiamo inventando nuove forme di espressione, che io chiamo «AI data sculpture» (scultura di dati AI). Il Guggenheim di Bilbao sta diventando una scultura, non più uno spazio architettonico. Potremmo aver bisogno di nuovi nomi per questo mezzo, perché non è solo videoarte. È una creazione nel Cloud che funziona senza assistenza. È il momento perfetto per pensare a cos’altro possiamo creare. Ad esempio, l’Intelligenza Artificiale sta attualmente creando realtà generative. Grazie a ciò, possiamo sentire, vedere, leggere, percepire e molto altro ancora. È un momento incredibile per essere vivi, stiamo assistendo a qualcosa di molto speciale: la sensazione di volare attraverso la mente di una macchina, che cambia continuamente.

Lei è uno degli attuali protagonisti della creazione basata sull’Intelligenza Artificiale, noto per i suoi ambienti astratti e onirici. Una delle sue opere, «Unsupervised-Machine Hallucinations-MoMA» (2022), è entrata a far parte delle collezioni del MoMA di New York nel 2023, dov’è stata esposta per la prima volta. Come ha concepito «Living Architecture: Gehry» per il Guggenheim Museum di Bilbao?

L’opera è il frutto di una collaborazione con l’archivio di Frank Gehry. Utilizza immagini della natura e dell’architettura, disegni, modelli 3D, fotografie dei suoi edifici... tutto ciò che l’architetto, che ha firmato questo straordinario museo, ha generato nel corso degli anni. Ho voluto onorare la sua vita nell’era dell’IA, dei dati ricercati in modo etico, dell’energia sostenibile e per far sognare una delle più straordinarie istituzioni artistiche. L’opera d’arte passa quindi attraverso questi numerosi concetti. Per realizzarla, un software personalizzato di tecnologia avanzata basato sull’IA, chiamato Large Architecture Model (Lam), è stato addestrato per mesi con un gran numero di immagini, schizzi e piani liberamente accessibili per tradurre il vocabolario architettonico di Gehry in un paesaggio digitale di forme, colori e movimenti dinamici in continua evoluzione. Reimmaginare materiali e forme in questo spazio tridimensionale permette di pensare in modo diverso, di entrare nello spirito di Gehry. È un’opera d’arte diversa da tutto ciò che ho fatto prima. Ho cercato di innovare, di trovare nuovi modi di vivere l’arte. L’idea di fondo è immaginare il futuro dell’architettura. Grazie a un algoritmo, l’installazione vede susseguirsi diverse sequenze, ad esempio la ricostruzione di pigmenti in movimento a 360 gradi. Queste immagini sono accompagnate da un paesaggio sonoro immersivo composto da Kerim Karaoglu, basato su suoni generati dall’IA e su registrazioni effettuate all’interno del museo stesso. In questo modo possiamo sperimentare nuove sensazioni. Siamo di fronte a molte sfide: il cambiamento climatico, le crisi geopolitiche e sociali... Ho voluto creare uno spazio in cui ci si senta rassicurati, al sicuro, quasi un luogo di guarigione, dove si possa dire: «OK, voglio venire in questo edificio. So che questa IA è etica. So che questa energia è usata in modo appropriato». Bisogna pur iniziare da qualche parte per immaginare mondi meravigliosi. Quando vedrete queste creazioni di edifici attraversati dalla natura grazie all’IA, forse ispireranno la prossima generazione di architetti, prima di diventare realtà. Allora impareremo a convivere con la natura; tali proposte ci offriranno i mezzi per vivere in modo sostenibile. A volte basta vedere degli esempi per potersi proiettare. È quello che spero davvero, che possiamo stabilire dialoghi e dirci, supponendo che risolviamo alcuni problemi, «Che cosa possiamo creare di diverso?». Il mio ruolo è trovare somiglianze, creare ponti. Cosa ci unisce veramente? I musei sono i luoghi più importanti in cui possiamo discutere, pensare, sognare nuove realtà.

Refik Anadol, «Living architecture: Gehry», 2025, Guggenheim Bilbao. © Guggenheim Bilbao

L’obiettivo di «Living Architecture: Gehry» è anche quello di trasporre questo mondo digitale in una struttura fisica?

Assolutamente sì. Molti artisti hanno esposto le loro sculture e i loro dipinti in questa sala. Ma mi sono detto: nell’era dell’Intelligenza Artificiale, nell’era dei dati, che cosa è possibile creare? L’intero spazio diventa una tela. Questo «pigmento vivente» non si secca, può essere in costante movimento, creando nuove forme. Ho pensato che questo potesse essere un punto di partenza. In passato, per oltre quindici anni, ho utilizzato schermi, molte forme diverse di proiezione, creando estetiche distinte, ma qui l’installazione si adatta alla stanza, ci si sente totalmente immersi in essa. Siamo dentro il quadro.

Questa nuova fase della sua pratica le apre nuovi orizzonti?

Penso di sì, perché quest’opera d’arte vive nel Cloud. Non bisogna preoccuparsi di staccare la spina. Sarà sempre viva. È molto probabile che le creazioni digitali nel Cloud sopravvivano a noi! Quindi quest’opera d’arte è molto speciale.

Che effetto vuole avere sul pubblico?

Prima di tutto, creo per me stesso, pensando al futuro dell’immaginazione nell’era dell’IA. E a come questo lavoro possa riflettere queste domande: «Dove stiamo andando? Che cosa può generare l’IA?» Mark Rothko ha detto: «Il mio lavoro è un luogo». Mi piace il suo approccio. Quest’opera al Guggenheim di Bilbao è un luogo di riflessione per proiettare un futuro di ispirazione. I progetti architettonici risultanti dall’IA non sono irrealistici. Ho sentito persone dire: «Voglio vivere lì!». Il cambiamento sta avvenendo. Il mondo sta cambiando. Stiamo mettendo in discussione ciò che è reale. Questo tipo di lavoro crea un dialogo tra il mondo interno e quello esterno. Queste proiezioni sono suggerimenti di ciò che possiamo ottenere se facciamo la cosa giusta adesso. Dobbiamo prepararci.

Un album dei Kraftwerk, basato sul concetto di musica creata da robot, si intitola «The Man Machine». Nelle sue creazioni, quanto del processo generato dalla macchina, gli algoritmi, è umano?

50% umano e 50% macchina. Sono sempre io a programmare la casualità e il controllo. E il motivo è che so esattamente perché il sistema è stato creato. Non è guidato da strumenti commerciali già pronti, ma è creato da zero. È un approccio molto diverso, come fare il proprio pigmento, generare il proprio gesto. Ma qui stiamo parlando di un’intelligenza virtuale e sintetica che possiamo programmare in modo che queste macchine ricordino, dimentichino, sognino, abbiano allucinazioni, insomma, ogni genere di cose. È un viaggio infinito, perché ogni dato è unico, ogni archivio è unico. Se si pensa allo studio di un artista in senso tradizionale, ci sono pigmenti, pennelli e una tela. Per me, ogni mattina è una nuova tela, nuovi dati, un nuovo algoritmo, che rompe con la zona di comfort dello strumento definito. La creatività stessa è in continuo movimento. È molto diverso da quello che è successo negli ultimi secoli: non siamo stati in grado di usare un pigmento diverso ogni giorno, o un pigmento che non si secca, o un pennello che può ragionare! È un nuovo ed entusiasmante modo di pensare! Con queste tecnologie non ci sono limiti, lo spazio è illimitato. Ho sviluppato il mio software per 16 anni. È diventato un mezzo a sé stante, il Dna della creazione.

Esiste una pittura buona e una cattiva. Certo, si potrebbe obiettare che si tratta di una cosa soggettiva: alcuni artisti hanno persino affermato di aver fatto dei brutti quadri! Ma se non è soddisfatto, un pittore può modificare o cancellare la sua tela. È possibile modificare i dati di un’opera generata dall’Intelligenza Artificiale se non si è soddisfatti del risultato?

Sì! Abbiamo impiegato un anno di raccolta dati per creare questa installazione al Guggenheim di Bilbao. Un anno per trovare il blu migliore, per esempio. Per il lavoro al MoMA si trattava di raccontare una storia diversa, di lavorare con gli archivi del museo, e l’effetto è stato molto potente. È stato un buon inizio per imparare ad andare avanti. Ma ho l’impressione che ci troviamo nella stessa fase di svolta, che stiamo provando qualcosa. Dico sempre che nel corso della mia vita ho visto nascere il Web 2, il Web 3, la tecnologia blockchain, l’IA, l’informatica quantistica. L’anno scorso Demis Hassabis, ceo di DeepMind Technologies, che è stato il mio mentore, è stato covincitore del Premio Nobel per la Chimica. Guardo sempre al lato positivo: che cosa può venire di buono da tutto questo? Come possiamo inventare nuovi media?

Refik Anadol, «Living architecture: Gehry», 2025, Guggenheim Bilbao. © Guggenheim Bilbao

Si ritiene che le nuove tecnologie consumino molta energia. Pensa che sia importante adottare un approccio sostenibile al suo lavoro.

È un punto essenziale. Questo lavoro consuma solo 42 chilogrammi di CO2, l’equivalente della ricarica di un iPhone quattro volte all’anno. Il motivo è che stiamo usando energia sostenibile. Stiamo per aprire un museo dell’Intelligenza Artificiale a Los Angeles e, negli ultimi due anni, abbiamo addestrato un grande modello naturale. Si tratta del primo modello di IA dedicato alla natura e che utilizza solo dati naturali etici e potenza di calcolo etica e sostenibile. È possibile comprendere la natura senza danneggiarla. È una nuova enciclopedia vivente. Ho trascorso molto tempo con le popolazioni indigene dell’Amazzonia. Sono la mia nuova famiglia. Conosco le loro case nella foresta e ho un nome che mi hanno dato. Quindi sono davvero innamorato della natura, che rispetto. Non solo perché è importante, ma perché sono legato a essa. Per questo continuerò a innovare. Ma con questo lavoro è la prima volta che riesco a raggiungere questo spazio, questa scala, e penso che la prossima volta, a Los Angeles, nel museo dell’AI, farò un ulteriore passo avanti. Sto ancora cercando di capire come portare avanti questo mezzo.

La creazione con l’IA suscita riserve e persino proteste. Recentemente, un’open letter ha chiesto l’annullamento dell’asta online «Augmented Intelligence» di Christie’s New York, che includeva alcune delle tue opere. Secondo i firmatari, i modelli di IA utilizzati per creare le opere proposte in questa asta sono stati programmati sulla base di opere protette da copyright, senza l’autorizzazione dei loro creatori. Come reagisce a queste critiche?

Prima di tutto, sono felice di dire che non sono coinvolto in queste critiche perché non ho utilizzato questi modelli. Come ho detto prima, creo i miei modelli, che è l’unico modo per essere sicuri al 100% che si tratti di un lavoro responsabile. Ho sempre fatto attenzione a ottenere l’autorizzazione per ogni dato, e questo ha richiesto anni. La risposta a questa sfida è la seguente: lavorare sodo, ottenere i propri dati, sviluppare i propri modelli. Il nostro museo dell’IA cercherà di risolvere questo problema. Stiamo cercando di creare modelli di IA per gli artisti, artista per artista. Non vedo altro modo per sentirsi tranquilli nel creare di fronte alla questione dei diritti d’autore, che è necessario difendere.

Ha fondato il Refik Anadol Studio e Ras Lab a Los Angeles, che si dedica alla ricerca e alla cultura di «nuovi modi di creare narrazioni a partire da dati e intelligenza artificiale». Qual è il prossimo passo?

L’apertura di questo museo dell’IA a Los Angeles per creare una pratica che funga da esempio per altri musei e per riunire più artisti che potrebbero non essere ancora stati scoperti. Abbiamo bisogno di un luogo in cui l’IA possa essere utilizzata e raccolta in modo etico. Come professore all’Ucla per dieci anni, ho visto che questo era un elemento mancante. A seguito degli incendi a Los Angeles, le licenze sono state ritardate, ma dovremmo iniziare alla fine dell’anno per sostenere questa pratica e i miei colleghi. In sintesi, si tratta di passare il testimone. Infine, stiamo lanciando la nostra enciclopedia vivente. Si tratta di un servizio di IA etico, molto accessibile, rispettoso della natura e sostenibile. È possibile consultare e monitorare il proprio consumo di energia grazie ai nostri dati sulla natura. Le Nazioni Unite l’hanno riconosciuto come un buon esempio. Spero che questo progetto, destinato ad artisti, studenti e musei di IA, susciti un buon riscontro, buone pratiche e vocazioni. Quest’anno partecipiamo anche alla Biennale di Architettura di Venezia. Parliamo di natura e architettura. L’architettura è un campo in cui la fantasia si dispiega in modo incredibile.

Che consiglio darebbe a un giovane artista che vuole cimentarsi nella creazione digitale?

Penso che sia un ottimo momento per diventare un artista. Gli strumenti stanno diventando facili da usare e accessibili, il che crea un approccio alla portata di tutti. Ma prima di tutto, mi sembra essenziale ricordare i pionieri, i maestri. Nell’era dell’IA si può avere l’impressione di aver raggiunto rapidamente un obiettivo, ma si può anche dimenticare la sua origine. È quindi fondamentale che la ricerca sia condotta in modo etico, che si ricordino le origini e i legami, perché ho l’impressione che l’IA possa portarci nella direzione sbagliata e farci dimenticare ciò che è stato fatto prima. Poi c’è la cultura Open Source. Abbiamo un ottimo esempio per capire che cosa significa un’IA etica. Esistono buoni modi per usarla, che rispondono alle critiche e alle preoccupazioni che suscita. L’incomprensione può essere un pericolo. La paura può bloccare la creatività. Liberare questa immaginazione è fondamentale per gli artisti.

Stéphane Renault, 26 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

Refik Anadol: «Il mio software è il Dna della creazione» | Stéphane Renault

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