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Una fotografia scattata da Wim Wenders sul set di «Paris, Texas» (1984)

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Una fotografia scattata da Wim Wenders sul set di «Paris, Texas» (1984)

Reimparare a vedere con Wim Wenders

La mostra alla Bundeskunsthalle di Bonn si pone come una via crucis laica del guardare, accompagnati dal regista tedesco che può essere anche definito un viaggiatore che fotografa

La vita è a colori, ma il bianco e nero è più realistico. Se c’è una frase che sintetizza il paradosso poetico di Wim Wenders è questa: l’arte come un vedere meglio, che non vuol dire vedere di più, ma con più sentimento. In occasione del suo ottantesimo compleanno, la Bundeskunsthalle di Bonn gli dedica la mostra che mancava: «W.I.M.-The Art of Seeing», un’immersione totale in quell’universo visivo e narrativo che ha fatto del regista tedesco non solo un maestro del cinema d’autore, ma un filosofo della percezione, un archivista di emozioni silenziose.

W.I.M. sta per «Wenders in Motion», ma anche per una visione che non si ferma mai: dalle strade dell’America post-industriale ai margini dell’Europa, dai paesaggi texani di «Paris, Texas» (1984) alle rovine metafisiche di Berlino in «Il cielo sopra Berlino» (1987), passando per i club dell’Havana nel documentario «Buena Vista Social Club» (1999) o i palcoscenici danzanti di «Pina» (2011), il mondo secondo Wenders è un lungo, ipnotico movimento di macchina. Una panoramica interiore.

La mostra (in programma dal primo agosto all’11 gennaio 2026) non è una retrospettiva. O meglio, non lo è nel senso didascalico del termine. Piuttosto, è una coreografia visiva, una drammaturgia per immagini che mescola fotografie a grande formato, film, disegni, collage, polaroid e appunti privati. Archivi intimi, lettere, copioni e dietro le quinte aprono squarci nella fucina creativa di Wenders, mentre un cinema 3D interno alla mostra rilegge l’estetica della profondità come visione aumentata della memoria. Non mancano, naturalmente, le colonne portanti della sua cinematografia: «Alice nelle città» (1973), «Lo stato delle cose» (1982), «L’amico americano» (1977), «Fino alla fine del mondo» (1991). Per ogni film, una stazione: come in una via crucis laica del vedere.

Una fotografia di Wim Wenders scattata sul set de «L’amico americano» (1977)

Una fotografia di Win Wenders scattata sul set de «Il cielo sopra Berlino» (1987)

Wenders non è solo un regista, ma un viaggiatore che fotografa o, meglio, un fotografo che cammina. Le sue foto, spesso scattate nei momenti di pausa tra un ciak e l’altro, raccontano di un’America deserta e malinconica, fatta di pompe di benzina abbandonate, motel senza clienti, cieli infiniti. Ma anche la Germania, il Giappone, l’Italia (sua seconda casa), scorrono nei suoi scatti con lo stesso sguardo sospeso, empatico e mai cinico. «Attraverso il mirino, colui che fotografa può uscire da sé ed essere dall'altra parte, nel mondo, può meglio comprendere, vedere meglio, sentire meglio, amare di più», scrive Wenders. Come dargli torto?

Una delle sezioni più intense della mostra è l’audio-walk: una guida sonora in cui è la voce stessa del regista ad accompagnarci, sussurrando aneddoti, digressioni e piccoli segreti. È come se Wim ci prendesse per mano, portandoci dentro il suo personale cinema interiore. E mentre racconta, ogni sala diventa uno spazio mentale, un paesaggio dell’anima.

C’è anche un’installazione immersiva, prodotta con le più recenti tecnologie audio-video, che ci proietta letteralmente dentro le sue visioni. Un’esperienza totalizzante, tra sogno e realtà, dove la grammatica cinematografica diventa habitat emotivo. E qui si capisce perché per Wenders «i grandi film cominciano quando usciamo dal cinema»: il vero spettacolo, in fondo, accade fuori. O dentro di noi.

Dietro tutto questo, una squadra curatoriale ben rodata: Susanne Kleine per la Bundeskunsthalle, Hans-Peter Reichmann e Isabelle Louise Bastian per il Dff-Deutsches Filminstitut & Filmmuseum di Francoforte, dove la mostra approderà nel marzo 2026 in una versione con taglio curatoriale differente. A completare il tutto, la collaborazione con la Wim Wenders Stiftung e Wenders Images, e il sostegno di Mubi per l’installazione immersiva.

Che siate cinefili incalliti o semplici viaggiatori dell’immaginario, «W.I.M.-The Art of Seeing» è una tappa obbligata. Perché guardare attraverso gli occhi di Wenders è un po’ come reimparare a vedere. Con più lentezza, più grazia, più attenzione. E forse anche con un pizzico di nostalgia. Ma di quella bella, che non immobilizza: che muove. Come il cinema. Come la vita.

Una fotografia di Wim Wenders scattata sul set di «Perfect Days» (2023)

Germano D’Acquisto, 25 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

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