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Martha Lufkin
Leggi i suoi articoliNew York. La battaglia legale scatenata dal dipinto di Picasso «L'Acteur» (1904-1905 ca), attualmente al Metropolitan Museum of Art, non si è ancora conclusa. Gli eredi di Alice Leffmann sono ricorsi in appello presso il tribunale federale di New York opponendosi al pronunciamento di una corte inferiore che aveva rigettato la rivendicazione presentata dagli eredi dell'opera, a loro dire venduta sotto coercizione durante il periodo nazista. Il Met contesta l'appello e mantiene la proprietà del dipinto.
«L'Acteur», oggi considerato una delle opere più rappresentative del Periodo rosa di Picasso, era appartenuto al collezionista ebreo tedesco Paul Leffmann; nel 1938 Leffmann l'aveva venduto in Italia per 13.200 dollari, una somma verosimilmente molto al di sotto del valore di mercato. Dopo aver lasciato la Germania, Leffmann e la moglie Alice stavano cercando di fuggire anche da un'Italia che si stava velocemente «nazificando». L'opera sarebbe in seguito riapparsa nella galleria Knoedler di New York, dove nel 1941 sarebbe stata acquistata per 22.500 dollari da Thelma Chrysler Foy, la collezionista americana che nel 1952 l'avrebbe donata al Met.
Il caso dell'«Acteur» è significativo a causa delle potenziali ripercussioni sulle richieste di quanti stanno cercando di riottenere le opere d'arte che famiglie ebree in fuga dal nazismo avevano venduto (e spesso svenduto) per racimolare il denaro che avrebbe consentito loro di espatriare.
Lo scorso febbraio, respingendo il ricorso degli eredi Leffmann, la giudice della Corte distrettuale statunitense Loretta Preska aveva stabilito che la vendita forzata del dipinto non poteva essere dimostrata, tanto per la legge italiana quanto per qulela statunitense. Pur riconoscendo una generale «pressione economica durante le circostanze innegabilmente orribili dei regimi nazista e fascista», la giudice aveva dichiarato che i Leffmann avevano avuto il tempo di rivedere e negoziare altre offerte prima di accettare i 13.200 dollari; i coniugi inoltre disponevano di altri cespiti, seppur notevolmente ridottisi.
Quello che i Leffmann in fuga dal nazismo dovettero affrontare nella Firenze del 1938, dove Adolf Hitler sfilava per i quartieri, era coercizione, affermano invece gli eredi. «O si vendeva o si affrontava un destino indicibile», si legge nel dossier da loro depositato in tribunale e in cui definiscono la vendita «un disperato atto di sopravvivenza durante la più orribile delle circostanze». Gli eredi aggiungono che la decisione della corte inferiore è in contrasto con la politica statunitense, come dimostra la recente approvazione dell'HEAR, l'Holocaust Expropriated Art Recovery Act, una legge che estende il limite di tempo per le richieste di risarcimento legate a casi d'arte verificatisi durante il nazismo, e che la corte non ha preso in considerazione.
«Come chiarisce la richiesta d'appello, la legge HEAR è una dichiarazione netta della politica degli Stati Uniti che favorisce la restituzione delle opere d'arte perdute a seguito della persecuzione da parte dei nazisti e dei loro alleati», spiega l'avvocato Ross Hirsch di Herrick, Feinstein, legale degli eredi.
Per il Met gli eredi Leffmann vorrebbero chiedere alla corte di prolungare i termini della coercizione, ribaltando così i diritti di quanti hanno comprato opere d'arte in buona fede. I Leffmann, spiega il museo, avevano venduto il dipinto sul mercato aperto nel 1938 e dopo la guerra non avevano presentato alcuna richiesta per riaverlo, a differenza di altri beni perduti durante il conflitto. Il Met aggiunge poi di aver trattato la richiesta degli eredi «con la sensibilità adeguata alle circostanze storiche» e di averla respinta solo dopo approfondite ricerche. «Il museo, dichiara David Bowker, uno dei legali del Met, si attiene rispettosamente alla conclusione di essere il legittimo proprietario del dipinto dipinto, che non è mai stato nelle mani dei nazisti e non è mai stato venduto o trasferito in modi illegali».
Il caso ha attirato l'attenzione di gruppi e singoli che si sono schierati a sostegno degli eredi Leffmann, tra cui l'Holocaust Era Restitution Project, B'nai B'rith International, il Centro Simon Wiesenthal per i diritti umani e altri. Secondo quest'ultimo, la corte dovrebbe tenere in considerazione il fatto che i nazisti avevano tessuto una «rete onnicomprensiva» per appropriarsi di tutti i beni ebraici per il Reich, aggiungendo che le vendite realizzate in tali circostanze non dovrebbero essere considerate come transazioni commerciali ordinarie.
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