Una veduta della mostra «Rirkrit Tiravanija. A Lot of People» alla Fondation Luma di Arles. Cortesia di Victor et Simon. Foto Iris Millot

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Una veduta della mostra «Rirkrit Tiravanija. A Lot of People» alla Fondation Luma di Arles. Cortesia di Victor et Simon. Foto Iris Millot

Rirkrit Tiravanija, guardiano del tempo ad Arles

Intervista al sessantatreenne artista thailandese, protagonista alla Fondation Luma di una grande retrospettiva che, dagli oggetti al cinema, copre più di quarant’anni di lavoro

Lo conosciamo perlopiù per le sue performance culinarie, le grandi zuppe che prepara per il mondo dell’arte in occasione di mostre e biennali. È quindi un po’ strano organizzare una retrospettiva di Rirkrit Tiravanija (nato nel 1961), la cui ricerca mira a sperimentare la vita e a distaccarsi dall'oggetto, quando, paradossalmente, non è lui stesso a realizzare oggetti in ceramica o a ricostruire luoghi. Al di là delle tracce delle sue performance, a volte troppo asciutte per essere davvero convincenti, ciò che soprattutto emerge  da «A Lot of People», la  mostra aperta dall'1 giugno al 3 novembre alla Fondation Luma di Arles,  è la vicinanza di Tiravanija al cinema sperimentale (che ha scoperto negli anni di New York, dopo un'infanzia e un'adolescenza a Chicago) e il legame delle sue immagini in Super 8 con quelle di Jonas Mekas e le parole di John Giorno. «A Lot of People» mostra Rirkrit Tiravanija come un guardiano del tempo e della sua intensità.

Una veduta della mostra «Rirkrit Tiravanija. A Lot of People» alla Fondation Luma di Arles. Cortesia di Victor et Simon. Foto Iris Millot

Che significato ha per lei una nuova retrospettiva? E come l’ha concepita?
Nel 2005 ho ideato una mostra vuota, «A Retrospective (Tomorrow is Another Fine Day)», al Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris. «A Lot of People», ora allestita ad Arles, si è già tenuta questa primavera al MoMA PS1 di New York1 ed è il risultato di conversazioni tra diverse istituzioni e curatori. Ruba Katrib, del MoMA PS1, ha invitato Yasmil Raymond, che conosce bene il mio lavoro. A New York,«A Lot of People» ha mostrato elementi che non sono così noti come ad Arles, e ha incluso un'altra parte in cui ho giocato con il genere della retrospettiva: vi ho realizzato un teatro, che ho chiamato «Place», un piccolo palcoscenico aperto, sul quale le persone hanno rimesso in scena le opere. È diventato una sorta di laboratorio con i miei studenti. Per Arles, Vassilis Oikonomopoulos ha preso questo corpus e ha aggiunto le opere della Fondation Luma.

Pensa che gli oggetti abbiano il potere di veicolare dei fantasmi legati a situazioni già avvenute?
Be’, sì, a volte. Ma il più delle volte sono solo oggetti, e questo è il problema. Prendiamo l'esempio di «Untitled (Pad Thaï)» (1990), un'opera in cui volevo riportare in vita una scena passata. Avevo una scatola e un mucchio di rifiuti che formavano una topografia quasi archeologica della situazione. In questo caso, i fantasmi appaiono attraverso gli elementi scartati. Negli ultimi trent'anni le istituzioni sono cambiate, sia in Europa che negli Stati Uniti. La Fondation Luma permette di fare le cose in modo semplice, davanti e con il pubblico, mentre le regole stabilite nella maggior parte dei musei, pensando di proteggere i visitatori, in realtà fanno soffrire l’arte.

L’estetica relazionale può essere utilizzata oggi come nei primi anni Novanta?
Sono idee non ben definite e più che altro attitudinali. Le persone non sanno come usarle senza il peso della loro storia. Camminare per strada e sorridere ai passanti è già molto. Fa tutto senza dover fare nulla.

E il titolo della mostra, «A Lot of People», da lei già che usato?
Sono stato io stesso a proporlo perché pensavo che avremmo dovuto includere le persone: la mostra parla di persone, non di oggetti. Se si vuole parlare di un'opera d'arte, si possono elencare i materiali di cui è fatta, ma non le persone che la usano o come la usano. L'idea alla base di questo titolo è che per realizzare un'opera ci vogliono molte persone.

Lei ha spesso parlato del suo lavoro come di ricette che possono essere «riattivate»: è il caso, ad esempio, di «The Shop» del 2022 che apre la mostra. È un modo di vedere le sue creazioni come processi infiniti? Come immagini fisse in un film?
Sì, sono opere open source! Ci sono diverse strategie. «The Shop», il negozio di ombrelli che ho ricostruito, è stato realizzato per una mostra a Hong Kong. È una replica di un famoso negozio in cui si vendono e si riparano gli ombrelli. In quella città, quel luogo ha ovviamente un significato molto particolare, a causa della rivolta nota come «Rivoluzione degli ombrelli» che vi si è tenuta nel 2014 e durante la quale i manifestanti pacifici hanno usato gli ombrelli per proteggersi dai gas lacrimogeni sparati dalle forze dell'ordine filocinesi. In quel contesto, riparare gli ombrelli è diventato molto importante. Alla retorica politica bisogna rispondere con l'illusione politica.

Nel percorso di visita è stata inserita una stanza nascosta, la cui porta si apre quando ci si avvicina. È il luogo dell'inconscio?
Sì, in un certo senso. Vediamo dei piccoli aspirapolvere che sembrano pulire lo spazio, ma mentre si muovono disegnano lentamente delle parole sul tappeto: «La foresta oscura». Mi ricorda il libro di fantascienza cinese di Cixin Liu, Il problema dei tre corpi [2008; in Italia edito da Mondadori, con la traduzione di Benedetta Tavani, Ndr], che inizia con la Rivoluzione culturale e continua con la possibile distruzione della Terra.

Prima ha accennato ai suoi studenti: insegna loro l’arte?
Non gli insegno niente!  Mostro loro la strada, il campo delle possibilità, in modo che possano imparare da soli, organizzarsi ed evitare le insidie. Sono lì per insegnare, ma sono contrario all'insegnamento... Uno dei miei corsi s’intitola «Fare senza oggetto». Come si impara a non fare? Non si tratta di non fare nulla, ma di pensare e non fare certe cose, in certi luoghi del mondo e in certi momenti. Dobbiamo ripensare a ciò che facciamo e perché lo facciamo. Dobbiamo anche essere coinvolti nelle strutture istituzionali, perché è da lì che vengono le persone.

Qual è il significato del suo «Untitled (erased Rirkrit Tiravanija demonstration)» del 2011?
Da un lato è un discorso sull'arte, su come Robert Rauschenberg cancellò un disegno di Willem de Kooning. Dall'altro è una messa in discussione del gesto politico che non è stato portato a termine. I disegni rappresentano manifestazioni in un momento in cui sono state represse. È iniziata con piccoli disegni a carboncino di giovani artisti thailandesi. Un po' più tardi, quando insegnavo a Città del Messico, ho voluto realizzare un'opera su larga scala, come un murale, raffigurante una storia delle manifestazioni basata su immagini d'archivio. Ho chiesto loro di continuare a disegnare finché i disegni non fossero diventati neri. È un po' come il processo inverso: una sovrapposizione di strati di storia che porta alla sua scomparsa.

Un’altra videoinstallazione su tre schermi mostra scene di preparazione della cucina a Chiang Mai, nel luogo, The Land, da lei progettato in Thailandia, dove in parte vive. Come vede questo ambiente?
Il video «Untitled 2014-2016 (curry for the souls of the forgotten)» è stato realizzato lì e trasmette semplicemente l'atmosfera. Evoca la Thailandia e le situazioni politiche attuali. The Land è di tutti. Io sono il fondatore, ma non il proprietario, voglio tenerla aperta in modo che la gente possa usarla. È una piattaforma. Non è arte, è una condizione di vita. Le persone che non ci sono mai state a volte pensano che sia un progetto artistico, ma non è così. È un processo aperto, in continua evoluzione.

Possiamo paragonarlo al suo modo di cucinare, senza che lei sia interessato alla cucina in quanto tale? Nel senso che è sufficiente che questa cucina esista, che queste zuppe passino attraverso il nostro corpo, anche se non le mangiamo?
Sì, è molto importante usare questi desideri, questa immaginazione. Tutti vorremmo essere in un posto come quello. In un momento in cui abbiamo troppe distrazioni, troppe immagini, troppo movimento, non vediamo più l'ideale, lo dimentichiamo addirittura.

Di recente ha parlato del suo interesse per la ceramica. Perché questo aspetto della sua pratica non è presente in mostra?
L'argilla prende forma e ritorna al suo stato originale. Uso questo materiale, ma la cosa finisce lì. Quando ho iniziato a fare ceramica, ho creato oggetti non per essere mostrati, ma per essere usati; poi ho voluto che sparissero a favore della vita.

 

Rirkrit Tiravanija in un ritratto del 2019. Foto © Mark Blower. Cortesia dell’artista e di Pilar Corrias, Londra

Lei presenta anche un montaggio di film realizzati tra il 1981 e il 2003, «Untitled (Super 8)» chedura 499 minuti e fa parte del patrimonio dell'Anthology Film Archives di New York, dove lei risiede.
Ho sempre realizzato film, anche di finzione, che oggi non sono visibili. In «A Lot of People» al MoMa PS1 sono stati proiettati in un cinema, mentre ad Arles sono stati proiettati direttamente nelle sale della mostra. Untitled (Super 8) è una raccolta di vite, amici e relazioni. Ci sono così tanti ricordi in queste immagini. Il formato Super 8 ci permette di sentire le persone; offre immagini d'archivio che sono molto personali.

Era molto legato a Jonas Mekas?
Sì, è stato molto importante nella mia vita. Mi ha trasmesso la sua energia per il cinema. All'epoca facevo parte del Collective for Living Cinema. Ken Jacobs è stato mio insegnante al master e Babette Mangolte è stata la relatrice della mia tesi. Ho lavorato soprattutto con i registi. Mi hanno insegnato molto. All'Art Institute di Chicago c'era un programma cinematografico fantastico: ho visto tutti i film di Chantal Akerman, per esempio. Per me il cinema è fondamentale, sia che l'opera appaia nel film sia che il film sia l'opera.

In questo senso per lei  è importante la materialità del film?
Sì, per il tempo. Il film è durata. Quando John Giorno fa una lettura di otto ore, il lavoro che ne risulta è costituito da undici bobine di pellicola, immagini che abbiamo realizzato dal vivo. Questo ci dà la consapevolezza della durata del tempo, come un tempo sostenuto. Bisogna «spendere» il tempo per vederlo e sentirlo.

Lei ha spesso parlato del suo desiderio di ridare vita agli oggetti, di riportare l'orinatoio di Marcel Duchamp sul muro. Che cosa significa per lei riprodurre le toilette del locale notturno CBGB di Manhattan, come ha fatto alla Chantal Crousel di Parigi (2018), o, ad Arles, ricostruire la galleria newyorchese Gavin Brown? È una sorta di presa in giro di sé stesso?
Mi prendo sempre in giro! Da un lato, si tratta del principio del modello, del fatto di guardare una copia dell'originale. Così ho riprodotto il negozio di ombrelli di Hong Kong in scala, il più fedelmente possibile. Ovviamente non si tratta della realtà, ma di un suo fantasma. Abbiamo memoria degli eventi, degli oggetti a cui abbiamo prestato attenzione. La mostra di Parigi del 2005 si è concentrata su questo, sul fatto che tutti noi creiamo i nostri ricordi, anche di situazioni che non abbiamo visto o vissuto, ma che le parole hanno descritto. È una sorta di inversione tra memoria e realtà.

E che cosa ci dice di «Untitled 2018 (MARCH ON UNTIL IT RAINS GLASS)», il grande dipinto nello stile di Philip Guston che chiude la mostra?
Le cose accadono in momenti particolari, e a volte in opposizione ad altre cose. Mi riferisco al muro che Donald Trump ha fatto costruire al confine tra Messico e Stati Uniti e all'arte impegnata di Philip Guston. Si riferisce anche alla mia situazione personale: devo attraversare muri in continuazione, e mi piace attraversarli... Questo dipinto ci ricorda che dovremmo essere molto più lontani politicamente.

Lei «cucina» la storia dell'arte per farcela mangiare?
Sì, copio le ricette e le porto nel presente! Questa è la posizione di chi non ha il peso della storia dell'arte.Vengo da un luogo in cui non ho alcun attaccamento a queste storie, quindi posso usarle liberamente.

Che ricordi ha dell’Argentina?
Ho lasciato l'Argentina quando avevo 3 anni. Mio padre era un diplomatico, il suo primo lavoro. Mia madre era una giovane dentista, aveva finito gli studi di odontoiatria lì. All'inizio degli anni Sessanta, questa era una situazione molto rara per una donna tailandese: proveniva da una stirpe di donne progressiste. Quando ho finito le superiori mio padre era in Canada. È lì che ho iniziato l'università. Mi ha dissuaso dal prendere la sua stessa strada. Avevo viaggiato, ero stata in Africa, ero interessato alla fotografia e volevo diventare fotoreporter. Poi ho scoperto l'arte e la storia dell'arte, il «Quadrato bianco» di Kazimir Malevic [1918] e la «Fontana» di Marcel Duchamp [1917]. Un giorno, in una biblioteca, presi un libro a caso, in cui trovai il nome dell'Ontario College of Art [di Toronto], inviai la mia domanda di ammissione e fui accettato. A New York non conoscevo il «profumo del mondo dell'arte» e ho finito per restarci. Sono entrato nel mondo dell’arte per caso, come di soppiatto.

Dove ha conosciuto Pierre Huyghe, Dominique Gonzalez-Foerster e Philippe Parreno?
Ad «Aperto '93» (la mostra ideata da Helena Kontova e Giancarlo Politi per la 45a Biennale di Venezia nel 1993 diretta da Achille Bonito Oliva, Ndr) e poi a Le Consortium, a Digione. Sono diventati la mia famiglia, i membri di una famiglia circense che si sposta e trascorre del tempo insieme. Le persone vanno e vengono. Per me non c'è stato alcuno sforzo o interesse. Non ho mai visitato uno studio e non ho mai provato a farlo!

Anaël Pigeat, 23 luglio 2024 | © Riproduzione riservata

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