Diario di Radis, progetto di arte nello spazio pubblico promosso da Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT per il quadriennio 2024-2027. Questo progetto di racconto a puntate, una al mese sino ad ottobre, vuole illustrare, per tappe, con diverse voci e da diverse angolazioni, il percorso verso l'innesto dell'opera di Giulia Cenci per la prima edizione del progetto.
Siamo stati a Rittana per la prima volta a inizio gennaio. Partiti in mattinata, abbiamo raggiunto la borgata di San Mauro poco prima dell’ora di pranzo. È un viaggio breve: basta un’ora e mezza per allontanarsi dalle strade affollate di Torino e approdare in territori montani che, ormai da più di un secolo, soffrono di un costante spopolamento. Fino a Cuneo il paesaggio prosegue uniforme, dominato dalla pianura, ma appena si supera la città la strada incomincia a salire e intorno si aprono boschi quieti e prati brillanti.
Di Rittana non sapevamo molto fino a quel momento, ma dopo il pranzo abbiamo iniziato a conoscerla. Si tratta di un comune composto da una quarantina di borgate, incastonato tra le creste dei monti in una valle minore a lato della più ampia Valle Stura di Demonte. Molte delle borgate sono disabitate, oppure vengono occupate soltanto in estate; altre, come la Borgata Paraloup, hanno vissuto un processo di recupero e riattivazione. Quella di San Mauro è la principale: due chiese, un discreto gruppo di abitazioni e alcune attività commerciali occupano i lati della strada centrale che attraversa il paese.
In verità, già durante il pranzo abbiamo iniziato ad ascoltare i primi racconti su Rittana. Chi la abita, quali attività la animano, la difficoltà di ripopolare quei luoghi, l’importanza dei testi di Nuto Revelli per comprenderli davvero. Il nome del paese deriva dal latino tardo ritanus, ritana, e significa rio, piccolo corso d’acqua. È quindi il fiume che la attraversa a darle il nome, accompagnando a margine la via centrale del paese. Seguendo il suo corso, verso monte, abbiamo proseguito il nostro viaggio per andare a visitare il Chiot Rosa, nonostante la giornata fosse rigida e una bufera di neve minacciasse di arrivare a breve.
Man mano che la strada ci accompagnava verso il Chiot – partendo dal paese in auto si impiega circa un quarto d’ora per arrivare – la nevicata cresceva di intensità. Quando siamo arrivati nell’ampia radura che si apre a milleduecento metri di altitudine il nostro sguardo poteva percorrere non più di qualche decina di metri. Dalla quantità dei fiocchi che cadevano, e che iniziavano ad accumularsi silenziosamente sulla strada, abbiamo compreso che era il momento di tornare indietro.
Seguendo i consigli del sindaco di Rittana e delle persone che ci avevano accolto in paese, entusiaste di ospitare il progetto, abbiamo iniziato a immergerci in alcuni dei testi classici di Revelli. Le testimonianze raccolte nei suoi libri parlano chiaro: dal Dopoguerra a oggi molti dei problemi di cui soffrono queste zone sono rimasti intatti. «Nel 1900 il comune di Rittana aveva milletrecento abitanti. Nel 1981 ne aveva ancora duecentocinquantadue. In questi pochi mesi del 1982 la nostra popolazione residente è ancora diminuita: sono già andate via altre venti persone. Ormai quasi tutte le nostre quarantanove frazioni sono deserte. A Gorré, come a Chesta, vivono ancora sedici persone; a Tetto Cutel sette; a Tetto Pulin e Tetto Maiet, due; alla frazione Butta, una…»[1].
A parlare è l’allora sindaco di Rittana Adriano Perona, intervistato da Nuto Revelli agli inizi degli anni ’80. Poi prosegue: «[…] Nell’ultimo biennio abbiamo avuto una sola nascita e quindici decessi. I pochi giovani che si sposano vanno via, mettono su casa a Borgo San Dalmazzo o a Cuneo. Se avessimo almeno un artigiano che mettesse una fabbrichetta, che desse del lavoro ad una decina di persone, forse lo fermeremmo lo spopolamento!»[2].
Come allora, le persone che incontriamo hanno le stesse esigenze: ripopolare, trovare attività che incentivino le persone a vivere lì, o per lo meno a frequentare quei luoghi in modo regolare. Continuando a leggere la testimonianza raccolta da Revelli apprendiamo che, curiosamente, anche agli inizi degli anni ‘80 il Chiot Rosa fu scelto per ospitare un’iniziativa finalizzata a rivitalizzare il paese:
«Cinque anni fa ho lanciato l’idea di organizzare in agosto una festa popolare al Chiöt Rosa, nel ricordo della guerra partigiana. Il Chiöt Rosa è tra San Matteo, dove nella battaglia del gennaio 1944 restò ferito Duccio Galimberti, e Paralup, dove i partigiani Gielle organizzarono una delle basi della banda “Italia Libera”. Sono i nostri giovani della Pro Loco che si dedicano con entusiasmo all’organizzazione di questa festa popolare, alla quale partecipano sempre centinaia di persone. Il giorno della festa del Chiöt Rosa è diventato per tutti noi un giorno di meditazione, di allegria, di speranza»[3].
Nei mesi successivi siamo tornati più volte a visitare il Chiot, dove ogni anno a inizio agosto si organizza ancora la festa popolare, e le giornate soleggiate ci hanno svelato un luogo diverso: percorrendo più volte la strada che da Rittana sale verso la montagna l’abbiamo vista popolarsi di ciclisti, camminatrici, e studenti che, invitati dal sindaco, collaborano con la comunità locale per immaginare un futuro nuovo per questi luoghi.
Terza puntata del «Diario di Radis», dedicata, nelle parole di Marta Papini e Leonardo Pietropaolo, alla mostra «Opera al nero». La mostra, le cui opere sono selezionate da Marta Papini e Leonardo Pietropaolo, con Giulia Cenci, crea un dialogo tra le collezioni delle Fondazioni CRT per l'Arte e CRC e la poetica dell'artista Giulia Cenci