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Romain Zaleski davanti a un tappeto Kazak «a stelle» del XIX secolo

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Romain Zaleski davanti a un tappeto Kazak «a stelle» del XIX secolo

Romain Zaleski: «Il collezionismo è un albero che cresce solitario»

Il 93enne industriale e collezionista ha donato alla Fondazione Tassara 1.300 tappeti antichi ora nel museo Mita, l’unico in Italia solo di tessili

Luca Emilio Brancati

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«Bello, eh?». Così mi accoglie Romain Zaleski (Parigi, 1933), abbracciando con lo sguardo vivace e sorridente gli spazi interni del nuovo museo Mita che ospita la sua collezione di tappeti donata alla Fondazione Tassara. A dispetto dei novant’anni, è energico e simpaticamente affabile, l’occhio azzurro tradisce curiosità e determinazione, la parlata pacata dalla caratteristica inflessione francese maschera un attento e calcolato riserbo. Le cronache disponibili in rete raccontano di Monsieur Z., del capitano d’industria, dell’esperto navigatore nei tempestosi mari della finanza internazionale e della politica, del ragazzo sopravvissuto alla guerra nazista. Ma, tra le molte cose non raccontate, c’è l’amore per il bridge («Quest’anno la mia squadra del circolo di Breno è diventata campione d’Italia») e la passione per tappeti e tessili storici.

Ingegner Zaleski, che cosa significa per lei collezionare?
La mia vita di collezionista è un’avventura umana, con molti aspetti di lotta, passione, disfatta... La mia storia è molto speciale: sono nato a Parigi. Mia madre era una nazionalista polacca tanto che sono arrivato ai 6 anni senza sapere una parola di francese perché in casa era vietato parlarlo... Nel 1939 ero in vacanza da mia nonna in Polonia, proprio allo scoppio della guerra. E lì siamo rimasti bloccati. Solo successivamente, con mia mamma e mia sorella, abbiamo fatto ritorno da Varsavia con un treno sanitario, un viaggio di nove giorni attraverso l’Europa. A 12 anni ho dovuto imparare il francese. Ben più tardi, a 50 anni, l’italiano per ragioni di lavoro. È stato molto difficile.

Com’è iniziata la sua avventura con i tappeti?
Ho comperato il mio primo tappeto a 23 anni, nel 1956, quando ero sottotenente dell’Armata francese in Marocco. Era senza grande valore, l’abbiamo usato nella casa di Parigi. Molti anni dopo, ormai residente a Borno in Val Camonica, in viaggio negli Stati Uniti ho comperati altri tappeti, anch’essi non importanti, per arredare la casa di Milano. Quando nel 1991 ho dovuto sostituirli, dopo un allagamento in casa, ci siamo recati da un negoziante della bergamasca, Sertori, che mi ha presentato esemplari più belli.

Così, lentamente, è ripartito l’interesse, principalmente per arredare casa. Quindi la passione per i tappeti ha covato per 35 anni.
A Parigi ho avuto rapporti sempre molto simpatici con Chevalier, soprattutto nel campo degli arazzi. Un grande professionista. A Milano con Tabibnia e Halevim. Con Davide Halevim stavamo sul ring: lui era un combattente e anche io lo sono un po’. È l’unico col quale ho litigato seriamente, ma alla fine abbiamo sempre sistemato le cose. Anche lui mi ha fatto comperare bei tappeti. Era un conquistador, voleva essere il primo... Mi sono divertito a «fare a pugni» con lui (sorride).

Anche con Moshe Tabibnia ha fatto a pugni?
Assolutamente no, Moshe ha uno stile diverso: guadagna com’è giusto, ma anche dà. Con Tabibnia è nato un rapporto di collaborazione diverso da tanti altri. Con me ha voluto anche investire in maniera lungimirante: mi ha raccontato le cose, mi ha fatto vedere, capire la storia degli oggetti. Le racconto una vicenda che ho vissuto con lui. Un giorno vado nel suo ufficio e lo trovo un po’ agitato... «Guardi!», e mi mostra una foto a colori ricevuta da un suo corrispondente di Istanbul. Vedo un bell’arazzo del quale Moshe mi racconta la storia: manifattura di Basilea, già pubblicato nell’800 e poi scomparso. Beh, nel mezzo ci sono state due guerre mondiali... Allora gli dico di prendere il primo volo e di prendere l’arazzo; ma il giorno dopo mi dice che l’arazzo non è più lì, ma a Mosca. Allora io gli ridico di salire su un altro volo... ed è quello che è successo. È stata una vera avventura, in cui ho giocato un ruolo effettivo. Il tempismo è sempre stato molto importante, c’era già la concorrenza dei mercanti americani. Si lotta, si combatte, non è solo una questione di soldi spesi: è la conquista di un oggetto.

Ha anche perso?
Una l’ha persa! (qui è il presidente del Mita Flavio Pasotti a raccontare, Ndr). Il 22 novembre del 2021 mi chiama per chiedermi se può spendere un po’ di soldi della Fondazione perché ci sarebbe stato un tappeto cinese il giorno dopo in asta da Christie’s Parigi (dinastia Ming, stima € 3,5-4,5 milioni, venduto a € 6,9 milioni, Ndr). Il pomeriggio dopo l’asta mi dice in maniera sibillina: devi essere felicissimo perché la tua collezione di tappeti cinesi ora vale molto di più! Moshe Tabibnia mi ha poi raccontato che non riusciva a distogliere Zaleski dal suo intento per quanto lo sconsigliasse: continuava a rilanciare finché proprio Moshe l’ha fermato. Per quanto lui voglia, non vince sempre.

Stupisce che su oltre 1.300 tappeti abbia combattuto così poche battaglie memorabili.
È così. Sono mancati gli avversari: per combattere bisogna essere in due. Un acquisto incredibile è stato l’Ushak «Holbein a disegno grande» proveniente dagli arredi dell’Abbazia di San Gregorio appartenuti a Carlo Monzino (asta Finarte-Semenzato, Venezia, 28 novembre 2002, stima € 5mila, venduto a € 564mila, Ndr). Mia moglie Hélène cercava un letto per la casa di Parigi e l’ho accompagnata insieme a Moshe, ma invece siamo finiti sotto il letto ad ammirare questo tappeto incredibile, sconosciuto e nascosto per tanti anni.

Questo suo museo è l’unico in Italia dedicato ai soli tappeti orientali: una grande responsabilità.
È vero. Ho spinto per la costruzione di questo edificio per conservare la collezione e, fortunatamente, abbiamo trovato questa soluzione in tempo.

Un progetto durato dieci anni.
Avevo prima pensato alla Fondazione Cini a Venezia, grazie al suo presidente Giovanni Bazoli, che aveva mezzi economici e spazi; era quasi fatta, ma poi è sfumata per motivi che non posso rivelare. Ho poi pensato a San Pietroburgo, ma senza esiti. Prima ancora c’erano stati in progetto Milano (Brera) e Brescia (Crociera di San Luca).

Ora all’improvviso Brescia è capitale del tappeto: i bresciani lo sanno?
Non tutti, non ancora. I tappeti sono un settore molto specializzato. Sono pochissime le persone educate che li conoscono. Qui in Italia Alessandro Bruschettini ha fatto belle cose. L’ho incontrato diverse volte, anche se in qualche misura eravamo concorrenti e, adesso che lui non c’è più, mantengo rapporti con Elisabetta Raffo (direttrice della Fondazione Bruschettini, Ndr) e sarebbe bello fare qualcosa insieme. Ho molte idee, ma bisogna collaborare: questa è la strada, perché il mondo del tappeto non è abbastanza forte per avere tanti musei dispersi. Deve concentrarsi. I tappeti non richiamano folle come Van Gogh. Un punto di riferimento unico in Italia in questo campo è giustificato. Non sono contro la concorrenza. Serve però un accordo.

Suo figlio Wladimir è il direttore del Museo Mita.
Mio figlio ha fatto ingegneria con una laurea in matematica, ma dopo il diploma mi ha convocato per dirmi che non avrebbe rifatto la mia vita e di non contare su di lui. Molto chiaro. Ed è stata una grande fortuna perché ora non c’è competizione col fratello. Oggi è uno specialista di video e si è innamorato di questo luogo; non ha molti rapporti con me, ma ha carattere e credo ci siano buone prospettive per il museo.

Quale è stato l’elemento chiave per essere il collezionista che è oggi?
Il denaro ovviamente è indispensabile, perché senza non si fa nulla. Ma la cosa importante sono le persone che ho conosciuto. In quest’avventura nulla è fortuito, tutto viene da un modo di fare. Bisogna reagire alle sfide. In realtà tutta la vita è una sfida ma forse è proprio il collezionismo a non esserlo. Il collezionismo per me è stata piuttosto una storia che si è fatta da sé, senza essere programmata. Come un albero che cresce solitario.

Come ha scelto il tessile?
Naturalmente, così come ci si innamora di una donna. Non riesco ad analizzarne il motivo. Il tessile ha a che fare con il femminile. È il tempo delle donne.

Quali sono i tappeti che preferisce?
I Kazak, il loro colore e la forza dei loro disegni. L’esperienza tattile delle loro lane. I kilim invece non mi interessano.

A inizio ottobre ha ricevuto il premio Joseph V. McMullan 2023 per la ricerca e la tutela dei tappeti e dei tessuti islamici e la medaglia del Governo polacco per la promozione della cultura. Si aggiungono al altre onorificenze di Stato italiane, francesi e polacche. Quale la rende più orgoglioso?
Nessuna in particolare, non sono vanitoso.

I prossimi passi di Mita?
L’esistenza. Mita deve imparare a esistere.

Romain Zaleski davanti a un tappeto Kazak «a stelle» del XIX secolo

Luca Emilio Brancati, 24 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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