Mario Piana
Leggi i suoi articoliA Venezia i livelli marini hanno raggiunto altezze senza precedenti: dal 1897 (quando fu fissato lo zero mareografico della Punta della Salute) a oggi la quota delle acque lagunari è aumentata di ben 35 cm.
Se non adeguatamente affrontato, il futuro e inevitabile innalzamento dei livelli marini (confermato da una pluralità di studi autorevoli e fondati) comporterà non solo problemi di vivibilità quasi insolubili, ma anche un deperimento sempre più rapido e violento degli edifici, tale da attentare alla vita stessa della città.
La risalita capillare dell’umidità, intimamente influenzata dalla progressiva crescita dei livelli marini, rappresenta indubbiamente la principale causa di degrado che colpisce l’intero patrimonio edilizio veneziano, composto da circa 15 mila edifici. L’acqua salmastra che impregna gli strati di terreno nei quali sono immerse le fondazioni degli edifici risale lungo gli spiccati murari delle fabbriche, raggiungendo oramai quote di parecchi metri.
Si tratta di un fenomeno che si sviluppa ininterrottamente; l’evaporazione dell’acqua produce concentrazioni sempre maggiori e oramai abnormi di cloruro sodico (in un metro cubo di muratura laterizia si possono rinvenire fino a 70-80 kg di sale) che con i continui cicli di scioglimento e ricristallizzazione aggredisce il piede delle costruzioni.
Via via aumentate con progressione esponenziale, le acque alte, bagnando direttamente il piede degli edifici e consentendo all’acqua salmastra di raggiungere nuove e sempre maggiori quote di risalita, stanno conducendo a un progressivo decadimento del patrimonio architettonico. I mattoni, le pietre, le malte e gli intonaci si vanno sempre più disgregando; con danni che raggiungono quote pari e spesso superiori al primo solaio degli edifici.
Le aggressioni sono oramai così pronunciate da innescare dissesti strutturali sempre più pericolosi. Gli ininterrotti cicli di discioglimento e ricristallizzazione salina stanno, infatti, via via intaccando le murature laterizie delle fabbriche cittadine, tutte caratterizzate da una marcata esilità di sezione. La riduzione anche di pochi centimetri del loro spessore, congiuntamente all’ossidazione talora completa, anch’essa favorita dall’acqua salata, degli onnipresenti tiranti metallici posti a collegare le murature con i solai lignei, sta generando fenomeni sempre più estesi di instabilità elastica, che si manifestano con pronunciate deformazioni flessionali delle stesse: si tratta della più severa (e pericolosa) sollecitazione a cui una muratura è chiamata a rispondere.
I danni provocati dalla risalita capillare al giorno d’oggi vengono contrastati con interventi consistenti nella formazione di barriere orizzontali che attraversano l’intera sezione muraria, capaci di intercettare l’umidità di risalita, accompagnate da sostituzioni a scuci-cuci dell’intera fascia basamentale della fabbrica, o con sistemi di lavaggio, più rispettosi della materia costituente la fabbrica, che consentono di eliminare quasi completamente i sali dalle murature.
Si tratta, tuttavia, di opere quanto mai impegnative e onerose, i cui benefici verrebbero pesantemente infirmati da ulteriori aumenti di soli 2 o 3 decimetri, stimati dal Rapporto IPCC 2021 se il riscaldamento globale si limitasse a 2 gradi centigradi, e di certo annullati se il loro aumento toccasse i 70 cm, stimati nello scenario intermedio di un aumento a 3 gradi.
L'autore è docente di Restauro architettonico Università IUAV di Venezia, Proto di San Marco, Socio dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti
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