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Alessandra Mammì
Leggi i suoi articoli«I due pittori» è un dipinto di Sandro Chia del 1982: due uomini muscolosi e forti sommersi nel caos di una pittura simultanea dall’ ipertrofico dinamismo futurista. Ma «I due pittori» è anche il titolo di un’altra sua opera datata 1992, in cui la doppia e corpulenta figura è ora impegnata a costruire un intreccio di arabeschi e volute. Potente la prima pittura, meditativa la seconda. Per questo, forse, «I due pittori» diventa titolo e paradigma di una mostra, curata da Lorenzo Madaro, che nello sdoppiamento vede la natura di questo pittore generoso e colto diviso fra la memoria e la fuga in avanti, fra la storia dell’arte e la costruzione di un immaginario, fra la citazione e la sperimentazione. Sempre per questo, di tutta la più che generosa produzione di Chia, la mostra, visibile fino al 15 giugno alla Fondazione Biscozzi | Rimbaud di Lecce, raccoglie solo opere su carta dal 1989 al 2017 come strumento d’indagine insieme ai preziosi e completi apparati bibliografici, curati da Simone S. Melis, del catalogo (Cimorelli). E nel moltiplicarsi delle immagini, delle citazioni e delle figure per lo più maschili emerge da queste carte un ritratto, o meglio un autoritratto, di un grande protagonista di quella rivoluzione che negli anni Ottanta ha riportato la pittura al centro della scena artistica. Eccola nelle parole dello stesso Sandro Chia (Firenze, 1946).
Cominciamo dal titolo «I due pittori», che è anche un tema ricorrente della sua iconografia…
Il titolo, per la verità, non l’ho scelto io. Ma l’ho tollerato perché è come se l’avessi scelto senza fare lo sforzo di sceglierlo. Io avrei voluto «Il pittore e il suo doppio», pensando a Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud (raccolta di saggi del poeta e commediografo francese Antonin pubblicata nel 1938, Ndr), ma forse era una citazione troppo dotta. «I due pittori» ricorda invece più un film francese del ’900 tipo «Les amants».
Lei lavora molto sui titoli. Quelli di alcuni suoi celebri dipinti sono poetici e sintetici come il verso di un haiku: «Incomprensione all’aria aperta»; «Congetture sulla tempesta»; «La mercante di scacchiere»; «Pittura, scultura e polvere». Quale posto occupa il titolo nel suo lavoro?
È una specie di statuto. Una delimitazione di un territorio all’interno del quale c’è il lavoro. Spesso prima nasce il titolo, poi l’immagine che è stimolata dal titolo, ma in questa mostra invece i lavori sono per lo più «Senza titolo». Mi sono sentito però un po’ tradito: se me lo avessero chiesto, avrei detto che preferivo battezzarli tutti «Con titolo».
Forse quel «Senza titolo» nasce per definire lavori su carta che sono come un corpus di opere a sé rispetto ai dipinti.
Può darsi che siano opere a sé, ma devo con forza smentire che questi lavori su carta siano opere minori. Forse sono frammenti di memoria, anche incidenti, ma non sono minori. Magari nelle opere cosiddette «maggiori» si riuscisse a ottenere quell’intensità, quell’accettazione dell’incidente: la macchia, la gora, il segno che traspare, un reticolo trovato…
Vuol dire che i disegni su carta stanno alla pittura su tela, come un sonetto a un poema o una sonata sta a una sinfonia?
Il parallelo con le forme musicali è improprio. Perché nella musica c’è inizio e fine, e l’ascolto richiede al fruitore un impegno nel tempo. Il disegno invece è un’apparizione sulla carta di un’immagine. I disegni sono istantanei e viaggiano alla velocità della luce. Sono una visione, un balenio come l’apparizione che colpì San Paolo sulla via di Damasco.
Qual è, nella sua pratica, la differenza fra disegnare su carta e dipingere su tela?
Le rispondo come fece Gino De Dominicis di fronte a un’analoga domanda. Se faccio un quadro piccolo la mia posizione è seduto, se è grande sto in piedi. Certo è che, se trovo un foglio di carta e una penna mentre sono al telefono con un amico, farò un disegno che non richiede l’impegno di un affresco della Sistina. Ma queste sono solo le regole di ingaggio.
Che cosa ha significato per lei nascere e crescere a Firenze?
Non lo so, lo dovremmo chiedere a uno psicanalista. Ho vissuto la nascita a Firenze come normale, anzi fino a una certa età ho pensato che tutti fossero nati a Firenze. Poi è arrivata Roma. Ma per gli artisti fiorentini da Brunelleschi, Masaccio fino ad Alberti il viaggio a Roma era fondamentale. Il Rinascimento in fondo nasce dalla somma di Roma e Firenze.
Anche per lei Roma fu fondamentale: perché in pieni anni Settanta la preferì a Milano?
Per caso, rientrando da una vacanza e camminando per Trastevere trovai un annuncio: «Affittasi stanza». Una grande stanza, l’ideale per uno studio un po’ bohème e io volevo diventare un artista bohémien, romantico, ambizioso, pronto a tutto per farsi notare. Roma era più adatta di Milano, città troppo industriale e professionale. E al tempo era una città fantastica, internazionale, vitale, anche se ci misi un anno a capire che gli artisti si incontravano a Piazza del Popolo. E che per farmi notare dovevo andare lì.
Lei all’epoca aveva accantonato la pittura, si era adeguato ai tempi e faceva lavori concettuali… È stata una scelta sofferta?
No, è stata una strategia. Presentarsi come concettuale era il mio cavallo di Troia. Entri nella fortezza e poi liberi le tue armi e vinci la guerra.
L’ha vinta?
Vincere o perdere non è importante. È stato divertente non restare appiccicato a delle imitazioni e cercare di resuscitare le cose viventi.

Sandro Chia, «Senza titolo», 2000. Foto: Rolando Paolo Guerzoni. Courtesy of Galleria Mazzoli, Modena

Sandro Chia, «Senza titolo», 2001. Foto: Rolando Paolo Guerzoni. Courtesy of Galleria Mazzoli, Modena
Qual è la sua interpretazione di quegli anni? Perché, qualunque cosa abbia significato la parola «Transavanguardia», di certo c’è stato il lavoro di alcuni artisti che hanno definitivamente sdoganato la pittura, da allora fino ad oggi.
È stata effettivamente «la liberazione»: come aprire la finestra dopo una notte di chiusure e di superstizioni.
Perché superstizioni?
Perché nell’arte precedente, chiamiamola «concettuale», c’erano prescrizioni, regole, divieti, materiali che tutti dovevano usare, da legittimare come la terra o gli animali vivi. Insomma, vigeva una trasgressione obbligata, colta e interessante ma fine a sé stessa. Ed è grazie a questa condizione di superstizione che è arrivata una Riforma che ci ha fatto uscire dal tunnel della Controriforma, fatta di regole e condizionamenti. Fu una lotta, ma una lotta elegante senza sopraffazioni, l’esibizione di strategia, simile a un gioco tra gli scacchi e la scherma che aveva come avversari una generazione di artisti da Mario Merz a Gino De Dominicis o Vettor Pisani molto appassionati, con i quali era un privilegio combattere, discutere, andare a cena…
Le piace la definizione «Transavanguardia»?
Non mi è mai piaciuta come definizione. Questo movimento di artisti sbandati io l’avrei voluto chiamare E/O. Ma tutte le definizioni dei periodi artistici sono usate in maniera irriverente nei confronti dell’arte. Un periodo storico come il Rinascimento non sapeva di essere «il Rinascimento», l’abbiamo chiamato così 200 anni dopo. Invece, mettere un nome a un periodo presente e contemporaneo è sempre pretestuoso, a volte è addirittura un insulto. Un artista tipo Emil Nolde viene chiamato Fauve solo perché un giornalista nel 1905 in visita a una mostra dice: «Questi sono belve». E così quel poveraccio resta una belva a vita. Il meccanismo è inaccettabile, l’assunzione dell’etichetta alla fine viene usata contro l’artista. Ed ecco che anche «Transavanguardia» fa ingiustizia a chi la subisce e a chi la usa. E infatti non la usa più nessuno.
Forse era necessario mettere un coperchio a una cosa tanto dirompente: opere che parlano di sentimenti, violenza, pulsioni che prima era difficile esprimere… Perché proprio la pittura fu il mezzo per ritrovare tanta passionalità dopo un periodo razionale e ideologico?
La pittura ha una storia che affonda le radici nei primordi dell’umanità. È un linguaggio talmente interno all’essere umano da farne parte come un organo, come un braccio. Ha la stessa natura del suono: un miracolo che ci permette di parlare, comunicare e che usiamo in maniera spontanea perché, per quanto prezioso sia, fa parte di noi, della nostra natura. La pittura, che costruisce immagine, è la stessa cosa: un dono che Dio o chi per lui, ha fatto al mondo. Un bene che ci accompagna da sempre e che prendiamo per scontato ma non lo è. Un patrimonio dell’umanità intera.
Sta parlando di pittura o di figurazione?
Qual è la differenza? Dipende solo dalla distanza da cui si guarda un’opera. Di fronte alle grandi macchine pittoriche di Tintoretto bisogna allontanarsi per riconoscere la figurazione. Da vicino sono opere astratte, devi camminare all’indietro per trovare il punto in cui l’occhio riesce a vedere tutto. I grandi artisti del Manierismo costruivano dipinti fuori fuoco perché si potessero ben vedere a distanza. E poi l’aggettivo «astratto» non può esistere in pittura, vorrebbe dire che puoi passare una mano nel mezzo di un quadro. Al massimo c’è una pittura non oggettiva.
Trova molto cambiato il mondo dell’arte dai tempi delle belle discussioni a cena sulla pittura?
È cambiato il mondo. Forse quelle esigenze che ci facevano incontrare nelle osterie ora sono soddisfatte da incontri su Facebook o da uno scambio di immagini in tempo reale tramite il cellulare. Sono cambiati gli aspetti tecnici, ma non le esigenze di fondo, come quella di appropriarsi di un’immagine per non separarsene. Sappiamo che Leonardo portò sempre con sé la «Monna Lisa» fino alla morte, se avesse avuto un telefonino l’avrebbe messa come salvaschermo.
E i collezionisti? Nell’intervista di Giancarlo Politi ripubblicata nel catalogo di questa mostra lei afferma «che sono loro i veri critici nel senso più profondo, perché quando affermano “mi piace” fanno seguire un’azione, pronti a pagare il prezzo del loro giudizio».
È vero: lo penso ancora. Un paragone che arriva dal poker, dove quando dici «Vedo», metti i soldi sul tavolo. «Vedere» diventa un valore concreto, un valore economico. E il denaro fa parte del linguaggio universale, forse è il più universale che esista. Anche l’artista è un alchimista che trasforma la putrida materia della pittura fatta di olii, cere, pigmenti, terre in oro. Dunque, in denaro.
Non c’è solo denaro. L’oro dell’artista, soprattutto nel suo caso, è anche nella forza dell’immaginario, nella potenza e nella persistenza del mito.
Ma quando parlo di oro e denaro mi riferisco all’oro e al denaro non solo mercantile ma anche simbolico, equivalente di ogni cosa preziosa. Il procedimento è simbolico. Il denaro è solo una equivalenza, il mezzo per il raggiungimento di un desiderio. E poi guardi una carta moneta: è un foglio di carta su cui ci sono immagini, colori, e che si può arrotolare. Non somiglia forse a un disegno? Pensiamo a Caravaggio, al mistero della sua luce che sembra arrivare da un corpo celeste. Al confronto il quadro è niente. È miserabile. Può essere venduto, comprato, barattato, falsificato, ma quella luce è pura ispirazione. L’oro, l’alchimia di cui parlo è in quella luce.

Sandro Chia, «Senza titolo», 2014. Foto: Rolando Paolo Guerzoni. Courtesy of Galleria Mazzoli, Modena

Sandro Chia, «Senza titolo», 2017. Foto: Rolando Paolo Guerzoni. Courtesy of Galleria Mazzoli, Modena