Melissa Gronlund
Leggi i suoi articoliDa quando è stata lanciata, quasi otto anni fa, l’International Alliance for the Protection of Heritage in Conflict Areas (meglio conosciuta come Aliph, la prima lettera dell’alfabeto arabo) è diventata un attore chiave nel settore dei beni culturali; «il nuovo grande protagonista», come ha detto uno specialista. Di fronte a un panorama in cui le minacce al patrimonio culturale sono sempre più gravi, tra conflitti, cambiamenti climatici e atti terroristici, l’organizzazione intergovernativa con sede a Ginevra ha finora sostenuto 470 musei, siti antichi e archeologici e siti del patrimonio immateriale in tutto il mondo. «Siamo riusciti a crescere molto velocemente, riconosce Valéry Freland, diplomatico francese divenuto direttore esecutivo dell’organizzazione nel 2018. E l’agilità è diventata uno dei nostri punti di forza». Piuttosto che implementare progetti, Aliph è un’organizzazione di finanziamento, che risponde alle proposte in un ciclo regolare di sovvenzioni e agisce come primo riferimento in caso di emergenze. Quest’ultimo ruolo è diventato il vero punto di forza dell’organizzazione, nonostante le sue dimensioni siano relativamente ridotte.
Quando l’Arco di Ctesifonte, di epoca sasanide, nel Sud dell’Iraq, ha rischiato di crollare nel 2020, Aliph ha fornito 775mila dollari per installare in pochi giorni impalcature di emergenza e altre misure di stabilizzazione. Tre settimane dopo che un’enorme esplosione nel porto di Beirut nel 2020 aveva danneggiato l’integrità strutturale del Museo Sursock, Aliph ha versato oltre 500mila dollari. E nelle prime settimane della guerra in Ucraina, Aliph era in contatto con centinaia di istituzioni, biblioteche e siti del patrimonio culturale per aiutarli a prepararsi alle conseguenze di un’invasione. «Ho ricevuto la telefonata di Aliph una domenica sera. Abbiamo ricevuto i fondi quattro o cinque giorni dopo aver parlato con loro e siamo riusciti a stabilizzare la situazione nel nostro museo per preparare tutto per l’evacuazione», racconta Oleksandra Kovalchuk, vicedirettrice del Museo Nazionale delle Belle Arti di Odessa, che ha iniziato a collaborare con Aliph nei primi giorni dell’invasione russa nel febbraio 2022.
Aliph è stata inaugurata nel 2016 come iniziativa franco-emiratina, in parte in risposta alla minaccia rappresentata dallo Stato Islamico (Isis) e in parte come prosecuzione della collaborazione bilaterale che ha accompagnato la preparazione all’apertura del Louvre Abu Dhabi. Nel 2015 François Hollande, l’allora presidente francese, chiese a Jean-Luc Martinez (all’epoca presidente direttore del Musée du Louvre) di stilare un elenco di 50 proposte per un ulteriore partenariato tra Francia ed Emirati Arabi Uniti (Eau). Una era un’organizzazione multilaterale che agisse per proteggere il patrimonio culturale.
Lotta all’estremismo islamico
All’epoca l’Isis era all’apice della sua potenza nel Nord dell’Iraq e della Siria e la leadership degli Emirati Arabi Uniti ambiva a presentarsi come primo oppositore dell’estremismo islamico, a livello nazionale e internazionale. Ed era altrettanto importante dare un seguito alla collaborazione tra i leader culturali emiratini e francesi. Se il Louvre Abu Dhabi è stato il risultato più evidente, le strette relazioni diplomatiche tra gli Emirati Arabi Uniti e la Francia si sono fatte sentire in diverse politiche di soft power dell’epoca. Molti dei soggetti coinvolti nel Louvre Abu Dhabi hanno anche contribuito al lancio di Aliph, tra cui Mohamed Khalifa Al Mubarak, presidente del Dipartimento di Cultura e Turismo di Abu Dhabi, che fa parte del Consiglio di amministrazione di Aliph, e lo stesso Hollande, che ha presieduto le prime due conferenze dei donatori dell’organizzazione a Parigi e ad Abu Dhabi. La seconda conferenza si tenne a marzo 2017 nel lussuoso hotel Emirates Palace. Gli esperti del patrimonio discussero della minaccia dell’Isis e delle potenziali soluzioni alla distruzione, e i lavori culminarono in un appello in cui i ministri promisero milioni di dollari alla neonata organizzazione. Oggi Aliph continua a godere soprattutto di finanziamenti governativi. La Francia e gli Emirati Arabi Uniti ne guidano la governance, ma l’Arabia Saudita è diventata il secondo maggior contributore finanziario dopo la Francia e si parla di un ufficio nella capitale Riad affinché Aliph possa rafforzare la sua presenza in Medio Oriente e nel Nord Africa. Tra gli altri Paesi donatori figurano Stati Uniti, Kuwait, Marocco, Lussemburgo, Cina e Cipro, mentre circa il 10% delle sue entrate proviene dalla filantropia privata.
All’inizio Aliph si è concentrata sui progetti post Isis in Medio Oriente, Asia meridionale e Nord Africa. In collaborazione con partner locali e internazionali, ha intrapreso importanti lavori di restauro a Mosul, gravemente danneggiata durante la battaglia per la liberazione della città dell’Iraq settentrionale; ha finanziato la ristrutturazione del Museo di Raqqa, saccheggiato e danneggiato dall’Isis; e la conservazione dei manoscritti della Biblioteca Al-Aqib di Timbuctu in Mali, gravemente danneggiata dagli attacchi degli islamisti nel 2012.
L’organizzazione, che riconosce la minaccia rappresentata dal cambiamento climatico, si è anche mossa per stabilizzare il patrimonio materiale e immateriale colpito da desertificazione, inondazioni e altre emergenze climatiche. Ma nel 2020, quando 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio sono esplose nel porto di Beirut, la capacità di Aliph di rispondere immediatamente ha cambiato alla radice l’orientamento dell’organizzazione. L’esplosione ha danneggiato gran parte dell’area portuale della città e diversi siti e musei del patrimonio culturale nelle vicinanze, tra cui il Museo Sursock. Aliph ha rapidamente sbloccato i fondi e coinvolto i partner per stabilizzare le strutture a rischio e avviare le misure di emergenza per i manufatti danneggiati. Questa idea di Aliph come risposta alle emergenze è stata rafforzata due anni dopo, quando la Russia ha invaso l’Ucraina. L’organizzazione ha prontamente distribuito fondi nel Paese (per un totale di 8 milioni di dollari in due anni) per consentire ai musei e ai siti culturali di prepararsi ai danni previsti dagli attacchi aerei e dai combattimenti. Musei e biblioteche hanno acquistato generatori e protezioni per le finestre, in modo da poter garantire condizioni stabili in caso di blackout e attacchi aerei, e hanno iniziato a spostare opere d’arte e manufatti in aree sicure designate, lontano dal fronte. «Storicamente parlando, è la prima volta che si verifica un’iniziativa di protezione culturale di questo tipo, afferma Freland. Con i nostri partner locali siamo riusciti a proteggere 450 istituzioni culturali, tra cui edifici storici, musei, archivi e biblioteche, e a creare 14 aree sicure in altre parti del Paese».
Struttura piccola e decisioni rapide
La capacità di risposta rapida di Aliph è in parte dovuta alla sua struttura relativamente piccola e al breve processo decisionale. Il team interno seleziona i progetti, che vengono poi valutati dal comitato scientifico di esperti. Le decisioni prese da questo comitato possono essere approvate celermente dal consiglio della fondazione, composto da rappresentanti degli Stati membri e da donatori privati, senza dover tornare dagli Stati membri per ottenere finanziamenti o approvazioni. Questo sistema la distingue da altre organizzazioni per la tutela del patrimonio, in particolare dall’Unesco, che molti operatori del settore considerano ostacolata dalla burocrazia. «Bisogna tenere ben presente che quando inizia la guerra, le cose sono molto diverse dalla vita normale, afferma Kovalchuk. Per esempio, era quasi impossibile trovare estintori, pannelli per proteggere le finestre o materiali per imballaggio. E per le opere in arrivo qui da altri musei in cui non erano al sicuro, abbiamo deciso di pagare i corrieri perché le portassero fin dentro le sale». Ma invece di dover chiedere l’approvazione per i costi extra, Aliph ha consentito loro di intervenire in modo rapido e certo.
Le fonti da noi interpellate sostengono che la natura non politica di Aliph è un suo ulteriore punto di forza. Questo potrebbe sembrare un controsenso per un’iniziativa di soft power, eppure il curriculum di Aliph mostra la volontà di lavorare in aree politicamente sensibili. Lo Yemen, ad esempio, dove gran parte delle distruzioni sono state causate dai missili degli Emirati e dell’Arabia Saudita, o l’Afghanistan, dove l’Unesco attualmente non lavora a causa della «politica di non coinvolgimento» dei suoi Paesi membri nei confronti dei talebani. È quindi grazie ad Aliph che alcuni dei siti più vulnerabili possono ricevere gli aiuti primari di cui hanno bisogno. Il patrimonio culturale non è un territorio neutrale. Gli investimenti dei Governi stranieri nei beni storico artistici di altri Paesi sono spesso effettuati in un’ottica di potere politico o di interessi economici. Ci sono anche sfumature di (neo)colonialismo, o perlomeno di paternalismo, nel perdurare del modello di ricchi stranieri che arrivano per salvare un sito antico in un Paese «in via di sviluppo». «Se da un lato le iniziative di conservazione del patrimonio culturale sono disperatamente necessarie, vista l’attuale situazione internazionale e le continue distruzioni, dall’altro è altrettanto necessario decolonizzare e riformare le pratiche arcaiche stabilite in epoche passata, coloniali e imperialiste, afferma la storica dell’arte iracheno-americana Nada Shabout. Collaborare con gli esperti locali e prestare attenzione alle preoccupazioni dei residenti sono questioni essenziali e devono essere pratiche prioritarie in ogni agenda internazionale. Dobbiamo sempre ricordare che il patrimonio è per tutta l’umanità, ma prima di tutto è una realtà viva per le popolazioni locali».
Gli standard occupazionali spesso differiscono per i lavoratori del luogo e quelli stranieri, e le agenzie a volte lavorano per sostenere il patrimonio edilizio di una comunità che è fuggita, per esempio l’enclave cristiana nel Nord dell’Iraq. Sono problemi più grandi di Aliph e vanno bilanciati rispetto al bene ultimo della protezione del patrimonio, ma non possono essere ignorati nel momento in cui si è chiamati a valutare i successi dell’organizzazione. Un’ulteriore sfida che Aliph deve affrontare è, purtroppo, il suo stesso ottimismo. L’organizzazione si è presentata come un risolutore di problemi, una risposta alla minaccia posta dall’Isis e, in seguito, come uno strumento agile per affrontare le sfide in corso poste da altri conflitti e dal cambiamento climatico. Ma anche nel breve lasso di tempo della sua esistenza, parte del suo lavoro è stato vanificato: sono stati segnalati scontri nei pressi dell’isola di Meroe, in Sudan, che Aliph, in quanto parte di un’équipe coordinata dall’Unesco, aveva stabilizzato dopo l’inondazione del 2020-21; e ovviamente sono a rischio i suoi progetti realizzati a Gaza, tra cui la conservazione di un antico monastero e di una casa di epoca ottomana (completati con l’agenzia palestinese Riwaq). Aliph prevede di attuare misure di emergenza nei due Paesi non appena potrà di farlo, ma oggi non può ancora operare sul campo. La sensazione è di fare un passo avanti e due indietro. Oltre al costo umano e storico di questi danni, la situazione si ripercuote anche sul bilancio: i donatori continueranno a stanziare fondi in aree vulnerabili se le cause di un conflitto persistono?
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