Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Gilda Bruno
Leggi i suoi articoliUn caleidoscopio in continua evoluzione. È così che l’artista Sohrab Hura (Chinsurah, 1981) accoglie chi approda sul suo sito web: con una sequenza che, mutando in tandem ai movimenti del mouse di ogni visitatore, ipnotizza chi la sta ad osservare. Non potrebbe esserci sintesi più adeguata della visione del talento indiano, proclamato vincitore del 2025 Eye Art & Film Prize lo scorso maggio. «È stato bello essere premiato per la mia capacità di esprimermi con diversi linguaggi visivi», ci dice della vittoria, la quale gli vede conferita una borsa di 30mila euro e l’opportunità di esporre all’Eye Filmmuseum di Amsterdam. Il premio chiude un cerchio per l’autore, riconoscendo il legame che unisce la sua fotografia, medium da lui utilizzato in passato per far luce sulla realtà di conflitto e impoverimento del suo paese natale sotto l’agenzia Magnum Photos, ai suoi dipinti, disegni e pezzi audiovisivi.
Mi chiedo quale dei suoi lavori racchiuda al meglio il suo processo, la camaleonticità e complessità del suo approccio. «I miei libri sono parte integrante del mio lavoro, è grazie a loro se ho imparato a dare forma alle mie idee», confessa l’artista. Uscita nel 2015, la sua monografia di debutto, Life Is Everywhere, «parla del rapporto che ho con mia madre, affetta da schizofrenia, con cui, fino a quel momento, non ero mai stato in grado di parlare e di quanto la sua malattia avesse influito su di me», racconta Hura. Ricorda il giorno in cui, nel 2009, le mostrò la prima bozza. «Nonostante il nervosismo iniziale, le piacque molto. Quel libro mi ha fatto capire quanto le immagini possano smuoverci emotivamente. Fu così che smisi di dipendere da un unico medium per avvicinarmi ad altre discipline visive».
Descrive spesso la sua relazione con l’arte come un viaggio verso una nuova meta. È questo movimento a ispirarla?
Quello che facciamo da artisti è più semplice di quanto non sembri. Mi piace credere che siamo tutti esseri umani complessi, capaci di identificarci con molta precisione in un mondo caotico. Sono alla ricerca di un incantesimo capace di far soffermare coloro che interagiscono con le mie opere anche solo per un momento in più rispetto a quanto non farebbero loro stessi, indipendentemente dal medium che utilizzo per riuscirci.
La sua produzione spazia dalle dinamiche familiari alle sfide sociopolitiche affrontate dalle comunità rurali indiane, passando per l’imbarazzo della vita quotidiana.
Mentre rispondo a queste risposte, la mia playlist musicale sta riproducendo Beastie Boys, Parvathy Baul, Giorgio Moroder, Aphex Twin, The Ronettes, Asian Dub Foundation, Sérgio Mendes e Kneecap in sequenza. Se ciò che ascolto può essere così variegato pur mantenendo un senso per me, perché l’arte che faccio non dovrebbe esserlo? Ho sempre voluto colmare il divario tra la persona che sono e quella che ambisco a essere. Voglio divertirmi, fare sciocchezze. Essere in grado di esprimerci è un privilegio. Preferirei imparare a ricamare un gatto imbronciato che fa la cacca sotto un cielo stellato e far sorridere la gente, piuttosto che continuare a cimentarmi in qualcosa di meccanico solo perché mi sento a mio agio nel farlo. Anche un gioco può trasformarsi in qualcosa di più significativo e universale.

Uno still dal video «The weather forecast», 2024, di Sohrab Hura. Courtesy of Sohrab Hura & Experimenter
Di recente, si è avvicinato alla pittura a guazzo e ai pastelli, «immagini rotte» che, per via della loro imperfezione, le ispirano maggiore fiducia. È l’antitesi di quanto accade sui social media: per questo non posta dal 2019?
Ho usato Instagram per sei mesi perché Dayanita Singh spingeva affinché i miei libri avessero una presenza social. Dopo aver sperimentato l’effetto che la piattaforma aveva su di me, ho capito di non sentirne il bisogno. I social media possono essere interessanti visti dai margini; quella distanza in cui non è necessario essere un partecipante attivo può farti riconoscere i modelli mutevoli dell’esperienza umana. Basti pensare agli ultimi due anni, in cui abbiamo assistito al genocidio in diretta streaming del popolo palestinese intervallato da pubblicità e video di gattini. C’è molto da imparare da questo. Fare qualcosa di pratico, come il lavoro manuale, lavorare i disegni a pastello e i dipinti a guazzo, mi consente di esistere in una realtà diversa: una realtà che posso toccare, morbida abbastanza da aiutarmi a rimanere testimone di ciò che sta accadendo.
Che cosa rende la sua sperimentazione appetibile ai più giovani?
Forse l’irriverenza dei miei disegni? Ho iniziato a disegnare a quarant’anni. Mi sentivo vulnerabile perché non sapevo dove mi avrebbe portato. Ma la vulnerabilità è una cosa meravigliosa da sentire perché ti fa correre rischi che altrimenti non correresti. Negli anni, il rendermi fragile attraverso il mio lavoro è diventato un meccanismo integrato. Non lo faccio soltanto interagendo con un medium a me estraneo, ma provo a rimanere quanto più onesto possibile con le domande che le mie opere si sforzano di porre. Chi le osserva dovrebbe riconoscere le proprie fragilità in esse. Tutti iniziamo a fare arte per amore. Ma quando uno smette di amarla, diventa un lavoro. Cerco di innamorarmi di quello che faccio ogni giorno della mia vita per rimanere il più vicino possibile al giovane me.
Ha mai sentito la necessità di mettere una maschera per favorire il suo successo in questo settore?
Non ci vuole molto coraggio a fare quello che vuoi fare quando sai cosa ti aspetta se non lo fai. Indossiamo tutti delle maschere nella nostra vita, ma so che ciò che si trova al di sotto di essa non è un’altra maschera. Ho un bagaglio pesante di cui mi faccio carico e su cui sto lavorando. La mia ricerca mi permette di fare chiarezza, di scremare le mie esperienze per trovare il vero me, che non so nemmeno se esista.
Il 2025 Eye Art & Film Prize le concede l’opportunità di esporre il suo lavoro all’Eye Filmmuseum di Amsterdam. Ha già idee a riguardo?
Prima ho bisogno di giocare e sentire. Finché sono disposto a farmi strada a tentoni seguendo la mia intuizione, so di poter trovare un corpus che mi rispecchia. Ho realizzato brevi video in una foresta alle spalle di dove vivo, un’oasi nella mia vita qui a Nuova Delhi. Forse ne nascerà qualcosa. Per il momento, vorrei mantenermi aperto a nuove rivelazioni. La presentazione potrebbe anche finire per essere una mostra collettiva in cui il mio lavoro dialoga con quello di un altro. Le mie opere sono interconnesse come i rami di un albero: a volte alcuni dei loro frammenti si ripetono in forme diverse e a volte interi progetti, realizzati con mezzi diversi, si sovrappongono ad altri. Spero che quella stratificazione aiuti lo spettatore a osservare da una prospettiva diversa.
Che cosa vuole che il pubblico porti con sé della sua arte?
Spero che la gente riesca a farla sua.

Uno still dal video «The Coast», 2020, di Sohrab Hura. Courtesy of Sohrab Hura & Experimenter

Uno still dal video «Pati», 2010-20, di Sohrab Hura. Courtesy of Sohrab Hura & Experimenter
Altri articoli dell'autore
«L’arte può mostrarci futuri che, senza di essa, sembrerebbero inimmaginabili», racconta la direttrice esecutiva di Aperture, curatrice della personale dell’artista afroamericana presso la sede torinese di Gallerie d’Italia
La South London Gallery ospita la prima personale nella capitale inglese dell’artista afroamericano, le cui opere sembrano voler dare libero sfogo al marciume che giace sotto la superficie della società contemporanea, rivelandone la vera natura
Oltre 100 opere dell’artista «ukiyo-e» ne riportano in vita la sensibilità estetica ed emotiva nella prima retrospettiva mai dedicatagli dall’istituzione londinese
Alla Tate Modern di Londra, la nuova personale dell’artista multidisciplinare coreano cattura l’essenza permeabile, psicologica, ed emotiva degli spazi che circoscrivono la nostra esistenza