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Edwin Heathcote
Leggi i suoi articoliTadao Ando irruppe sulla scena in un momento in cui gli eccessi decorativi del Postmodernismo e i feticci ingegneristici dell’High-Tech si stemperavano in ragioni aziendal-commerciali. Gli austeri cubi di cemento, le case minimali e le cappelle elementari dell’architetto giapponese apparivano come una sorta di ribellione, un ritorno incorruttibile ai principi del Movimento Moderno, ma infuso della saggezza estetica contemplativa e del rigore di un monaco di arti marziali. È diventato l’esempio del Minimalismo da tavolino. Solo i più appassionati hanno visto i suoi edifici dal vivo. Il suo lavoro è stato vissuto soprattutto attraverso le fotografie.
Ma questo accadeva 40 anni fa. Da quei primi giorni di impeccabile austerità del cemento, Tadao Ando, oggi 81enne, è diventato un architetto di grido, premiato con importanti incarichi in tutto il mondo. Un tempo appannaggio degli specialisti del Giappone e degli ossessionati del Minimalismo, oggi è venerato dalle aziende asiatiche e dalle grandi istituzioni culturali. Ha progettato alcuni dei musei più ammirati degli ultimi decenni, tra cui la Pulitzer Arts Foundation di Saint Louis, il Modern Art Museum di Fort Worth e una serie di strutture di grande impatto sull’isola di Naoshima in Giappone, meta di pellegrinaggio dell’arte. Ma il mondo dell’architettura intanto andava avanti e Ando apparteneva ormai all’epoca dell’eroe maschile solitario.
Lo sguardo del mondo si dirigeva verso l’impegno sociale e la sostenibilità energetica. Aveva iniziato a sembrare un architetto di altri tempi. Poi, nel 2021, è stata inaugurata la Bourse de Commerce di Parigi, con un’attenzione forse un po’ limitata dalla pandemia. Ando ha trasformato una struttura storica e da tempo vuota in qualcosa di magico. Ora è un luogo profondamente carismatico e ha dimostrato che questa figura rigorosa e segaligna può ancora lasciare senza parole con la sua architettura. Può ancora sorprendere.
Il venerato maestro
Incontro Ando in una sala laterale dell’Lg Arts Centre di Seul, un’immensa sede di attività culturali del gigante elettronico coreano. Circondato da staff, fotografi, giornalisti e addetti alle pubbliche relazioni appena fuori dall’inquadratura, avevo già intravisto Ando in un’altra stanza mentre firmava libri, ognuno con un elaborato ghirigoro o uno schizzo. È chiaro che è ammirato. Quella che segue è un’intervista piuttosto curiosa.
Ho attraversato mezzo mondo per avere questa rara opportunità, perché Ando da tempo convive con il cancro e chissà se ci sarà un’altra occasione per incontrare questo architetto le cui opere, da studente, avevo analizzato con tanta intensità e stupore in oscure riviste d’importazione. A quanto si dice, ora gli mancano alcuni organi importanti, tra cui il pancreas, la cistifellea e il duodeno. Ha ombre scure sotto gli occhi e la sua pelle è pallida, ma rimane sorprendentemente vivace. Vestito con un dolcevita nero (di rigore) e una giacca grigia, sfoggia una chioma di capelli sospettosamente non brizzolati.
Le condizioni per un’intervista «intima» sono per lo più assenti, quindi inizio alla grande: Che cos’è in realtà l’architettura? «Si tratta di speranza», risponde attraverso un traduttore (Ando non parla inglese, Ndr) appollaiato sul bordo di un grande divano. «Il compito di un architetto è quello di convertire i sentimenti in forma fisica, dice. Quando ho visitato la chiesa di Le Corbusier a Ronchamp ho provato speranza, lo stesso quando ho visitato il Pantheon a Roma. La luce che brillava, lo spazio... L’architettura non è una questione di fisica e di scala, ma di quanto grande possa essere quella speranza». Gli parlo dell’influenza che hanno avuto i suoi disegni durante i miei anni di studio. Lui è tipicamente cortese. «Se dici che i miei disegni ti hanno influenzato positivamente, per me è un grande onore», dice.
Molti di quei disegni sono ora esposti nel Museum SAN in Corea del Sud, un edificio a un’ora da Seul progettato dallo stesso Ando. È l’ultima tappa della mostra itinerante «Tadao Ando: Youth», fino al 30 luglio, che ha fatto tappa anche al Centre Pompidou di Parigi e ha confermato una sorta di rinascita della reputazione di Ando e perché sia stato così influente e così a lungo. «Una mostra di architettura, spiega, è in un certo senso una presenza contraddittoria in cui la vera “opera” dell’artista non c’è, e sono esposte solo tracce del processo creativo, come disegni e modelli. In questo senso, il luogo stesso è la più grande esposizione, il che rende questa mostra al Museum SAN estremamente emozionante per me». Se i disegni di architettura sono oggi esposti nelle gallerie d’arte e sono sempre più collezionati dalle istituzioni, sono quindi «arte»? «Io ritengo di no, dice lapidario. I disegni devono essere un mezzo per trasmettere ad altri le proprie intenzioni architettoniche».
Ando è notoriamente, e forse sorprendentemente, un autodidatta. Si è scritto molto sulla sua breve carriera di pugile dilettante, finché è arrivata l’architettura: «A metà degli anni ’80, la casa popolare in legno a un piano dove vivevo fu ristrutturata in un edificio a due piani, e il giovane carpentiere che si occupò del lavoro era entusiasta di ciò che aveva fatto, racconta. Mi sono detto: “È davvero appassionato. È impressionante”. Quello è il momento in cui ho preso coscienza dell’architettura. Ma non ho scelto di essere autodidatta: se non ho mai studiato in modo formale è stato solo a causa della situazione finanziaria della mia famiglia e della mia mancanza di capacità accademiche».
L’influenza di Le Corbusier
Avevo letto una magnifica storia sul fatto che il giovane Ando, non avendo abbastanza soldi per comprare un libro sul suo idolo Le Corbusier, si recava in libreria e ricopiava di nascosto i suoi disegni. «Non è vero, dice ridendo. Non avevo abbastanza soldi per comprarlo subito, quindi mi ci è voluto quasi un mese per averlo. Una volta comprato, ne sono stato ossessionato e ho ricalcato i disegni e le prospettive ogni sera dopo aver finito il mio lavoro part-time. Ero determinato a farlo mio, a qualunque costo».
Quando gli chiedo quale sia l’edificio che lo ha influenzato di più, non mi sorprende che dica la Cappella di Ronchamp di Le Corbusier (1954), anche se al momento dell’inaugurazione della Bourse de Commerce è passato strategicamente al Pantheon di Roma. Quest’ultima è forse una risposta più interessante. Almeno in parte perché il Pantheon è aperto alle intemperie, con il suo oculo che permette alla luce del sole e alla pioggia di entrare all’interno senza mediazioni. L’opera che ha portato Ando all’attenzione mondiale, la Chiesa della Luce (1989) a Ibaraki, in Giappone, ha una croce tagliata nella parete dietro l’altare. Ora è stata chiusa con una vetrata, ma in origine era aperta all’esterno. In effetti Ando aveva inizialmente pensato a uno spazio senza tetto.
Ora, completamente chiuso, ha perso un po’ del suo potere elementare e, guardandomi intorno nella megastruttura climatizzata dell’Lg Arts Centre, non posso fare a meno di chiedermi se quel legame iniziale con gli elementi rappresenti qualcosa di fondamentale che è andato perso. «È una discussione molto significativa. In effetti, la coesistenza con la natura è un tema costante nella mia architettura, afferma. Questo non è cambiato, ma l'architettura deve svolgere determinate funzioni. Non è facile. Quando procedo con la progettazione, mi sforzo sempre di capire dove tracciare la linea di demarcazione tra naturale e artificiale».
Il Museo SAN (l’acronimo sta per «Space Art Nature»), un edificio straordinariamente elegante in un resort tra le montagne di Wonju, esemplifica per molti versi la crisi dell’architettura contemporanea. La sua versione di «natura» è il campo da golf, un certo tipo di lusso accessibile solo in auto. L'originaria austerità di Ando è svanita in una serie di spazi più controllati dal punto di vista climatico e conformi agli standard museali globali. Ando era inizialmente riluttante ad accettare l’incarico per questo museo privato proprio a causa del suo contesto artificioso. Ma il museo ha riscosso un enorme successo, con oltre 250mila persone che ogni anno giungono in questo luogo remoto.
«Al Museum SAN è stato assegnato un sito con una natura bella e ricca, afferma diplomaticamente Ando. Il tema principale era quello di massimizzare il potenziale del terreno. Come risposta a questa esigenza, abbiamo progettato un museo d’arte integrato nell’ambiente che si sviluppa rispondendo al terreno, con spazi interni ed esterni interrelati. Volevamo creare un edificio che sembrasse un grande giardino». In questo è almeno coerente: se gli si chiede quale sia il suo museo d’arte preferito, risponde senza esitazione (come molti altri architetti, in particolare Norman Foster) «il Louisiana Museum of Modern Art», capolavoro del 1958 di Wilhelm Wohlert e Jørgen Bo.
Sulla costa fuori Copenaghen, il museo combina la contemplazione della natura con l’apprezzamento dell’arte in un design austero e modernista che appare molto distante dai gesti architettonici più evidenti del recente Ando (anche se la sua «Church on the Water» del 1988, una cappella nuziale a Hokkaido, ne è un omaggio più che evidente). A che cosa serve un museo? «Credo che un museo sia la luce della speranza, dice. Un luogo in cui le persone possono ottenere il “nutrimento per l’anima” necessario per vivere una vita ricca e appagante». A proposito del rapporto tra edificio e opere, e sul rischio di sopraffazione del contenitore sul contenuto, spiega Ando, «credo che il rapporto ideale sia quello in cui architettura e arte coesistono, come entità indipendenti e stimolandosi a vicenda».
Una conversione creativa
È il caso della Bourse de Commerce. Progettato per l’amico François Pinault (così come Punta della Dogana e Palazzo Grassi a Venezia), questo riutilizzo dell’ex edificio della Borsa conferma una tendenza a lavorare con strutture esistenti, cosa per la quale né Ando né il suo Paese natale, il Giappone, sono mai stati famosi. Eppure il «riuso adattivo» sembra sempre più il futuro, forse anche l’unico futuro in un’epoca di crisi climatica. «Ma il riutilizzo di vecchi edifici non è importante solo dal punto di vista dell’efficienza energetica. È anche un tema essenziale per lo sviluppo creativo dell’architettura contemporanea», afferma Ando. Parla di «un’architettura nell’architettura» e di un «dialogo tra vecchio e nuovo che infonde nuova vita all’edificio».
Gli chiedo infine, un po’ titubante, della sua salute. Ando è un architetto che si dice sia stato a lungo in bilico sulla soglia della morte. Questo breve viaggio è stato annunciato come una delle sue ultime escursioni all’estero. Eppure ha un aspetto piuttosto buono per un uomo di 81 anni. «Negli ultimi dieci anni ho subito due interventi chirurgici importanti e ho perso cinque organi, ma ho continuato a lavorare come prima, confessa. Penso che questa continuità sia la parte migliore di me stesso come essere umano».
E allora, chiedo, con altrettanto pudore, quali siano i piani per la successione nel suo studio, fortemente identificato con la sua persona. «Attualmente sto pensando a diversi progetti per il futuro del mio studio, dice. Il tema di questa mostra è la “giovinezza” e credo che l’essere giovani derivi da uno spirito di sfida costante, indipendentemente dall’età». Qual è dunque la sua eredità? A questo punto fa una pausa. «L’architettura è lasciare qualcosa alla generazione successiva», dice infine: «Il Centro per la Pace di Kenzo Tange a Hiroshima (1955) è un edificio che insegna il valore della vita attraverso l’architettura e la costruzione. Questo è il tipo di edificio che vorrei lasciare. Non dico di esserci riuscito, ma è quello che sto cercando di fare». L’entourage indica che il mio tempo con Ando è finito. Gli stringo la mano (la sua presa è ancora salda) e gli do il mio biglietto da visita. Lo guarda, poi lo firma disegnando uno scarabocchio intenso e vorticoso.

La Bourse du Commerce riconvertita da Tadao Ando a Parigi

La Chiesa della Luce (1989) progettata da Tadao Ando a Ibaraki

Il Museum SAN progettato da Tadao Ando a Seul