La mostra centrale dell’Anno Tàpies, che celebra il centenario della nascita del pittore, arriva a Barcellona nella fondazione, ora diventata museo, da lui creata nel giugno del 1990. Dopo il grande successo dell’allestimento nel Museo Reina Sofía di Madrid, «La pratica dell’arte» (aperta dal 20 luglio fino al 12 gennaio) curata da Manuel Borja-Villel, che è stato direttore di entrambe le istituzioni, cambia volto e proporzioni per la presentazione che conclude il suo percorso.
Antoni Tàpies e Borja-Villel si conobbero quando quest’ultimo era un giovane fresco di studi; pochi anni dopo l'artista gli affidò le redini della fondazione, della quale è stato direttore per 10 anni.Il loro è stato un rapporto intenso, ma mai problematico, per questo la mostra si può leggere come un omaggio al maestro e insieme come la celebrazione di una lunga amicizia. «Non aveva senso replicare in scala ridotta l’allestimento di Madrid. Questa è la sua casa e racchiude una memoria personale e artistica, che s’intreccia con le opere», sostiene il curatore, che in questa occasione ne presenta 135. Una selezione straordinaria che riunisce i grandi dipinti materici, la quintessenza di Tàpies, ma anche molte sorprese, tra cui una dozzina di opere inedite, mai prestate prima d’ora dai collezionisti che le possiedono, alcune come «Somac, el león» del 1949, che lo stesso Borja-Villel conosceva solo attraverso riproduzioni.
Un percorso affascinante, che rivela un Tàpies spesso sconosciuto, un queer «avant la lettre», affiorante dagli autoritratti della fase surrealista, in cui si dipinge con un seno prominente e non teme di mostrare il suo sesso senza pudore. Negli anni del franchismo si raffigura con gatti neri e sguardo mefistofelico, per passare poi alle opere più politiche e rivendicative degli anni del Padiglione della Repubblica e di quando in «Lo spirito catalano» del 1971 scrive Diritto al tirannicidio, per finire con l’artista consacrato ma malincolico, consapevole del decadimento del suo corpo e della fine che si avvicina.
Borja-Villel ha voluto ricreare l’ambiente dello studio dell’artista a Campins, esaudendo un desiderio dello stesso Tàpies. «Il suo studio rappresentava il tempo a spirale che era la sua più grande peculiarità, una concezione dinamica quasi coreografica. Tutto si ripete sempre, ma non è mai uguale», spiega il curatore, ricordando che tutti gli studi di Tàpies erano dotati di un soppalco che gli consentiva una veduta globale dello spazio per stabilire connessioni affettive, politiche e intellettuali tra le opere. «Rifletteva in continuazione sul ruolo dell’artista in relazione all’opera e al mondo. Era convinto che natura e essere umano fossero la stessa cosa, e che non esistesse separazione tra lo spettatore, il soggetto e la materia, un pensiero assolutamente contemporaneo», ricorda Borja-Villel che rivendica anche un aspetto poco esplorato del linguaggio dell’artista: il dadaismo del Tàpies più irriverente, che dipinge braccia amputate e rubinetti da cui non esce acqua ma una materia, terra o residui fecali, che attrae e allo stesso tempo disgusta, così come le vernici degli anni Ottanta possono essere associate ai fluidi corporei e all’Aids, all’epoca in piena esplosione.
Tàpies non parlò mai di queste possibili relazioni, ma col tempo le letture cambiano e queste opere dimostrano che ci sono ancora tante cose da scoprire e da dire sull’artista, oggetto in questi ultimi tempi di una rivalutazione da pubblico e critica in tutto il mondo. «È un monumento storico, uno dei più grandi artisti della seconda metà del Novecento», conclude Borja-Villel.