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Particolare della Heiligkreuzkirche (Coira, Svizzera, 1966-69) progettata da Walter M. Förderer

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Particolare della Heiligkreuzkirche (Coira, Svizzera, 1966-69) progettata da Walter M. Förderer

«The Brutalist» e il segreto della bellezza

Forme, geometrie, confini indeterminati, in un film che è un edificio a più piani, tutti da illuminare con una torcia elettrica

Partiamo da questo presupposto: «The Brutalist» non è esattamente il remake di «La fonte meravigliosa» (pur adottandone come matrice il romanzo del 1943 di Ayn Rand, da cui era stato tratto il film con protagonista Gary Cooper, diretto nel 1949 da King Vidor) e, soprattutto, non è un kolossal. Non lo è per mole di cast, non lo è per dimensioni sceniche, non lo è per evocazioni in fase di scrittura, non lo è nonostante il VistaVision, il formato cinematografico a 35 millimetri scomodato dopo decenni. È tuttavia un oggetto filmico personale (dunque originale) che riposa su prove attoriali decisive e sembra accennare a tantissime cose, anche se rimane un mistero se questi cenni siano accidentali o perfettamente voluti. Ironico anche che l’opera si giustifichi per la sua stessa durata, collocando addirittura un countdown di 15 minuti nell’intermezzo, come a voler alimentare il mito del «film pesante», a discrimine di quel massivo consumo di serie tv che ci ha abituato a lunghezze ben più titaniche (benché, spesso, vacue). Ma forse questo è parte integrante del rito di visione che Brady Corbet (giovane regista, ex attore ed esteta) vuole recuperare tra pellicoleria e mitologia kubrickiana, un neoclassicismo prezioso e riuscito nel momento in cui genera giudizi entusiasti da un lato e dall’altro insoddisfazioni di un pubblico spiazzato o irritato. Il risultato: il costrutto sovrarazionale che non accomoda l’umore del pubblico, ma lo stravolge con una confusa camera a mano capace di sobillare il basso ventre in un «piano sequenza» che, senza mai uscire dalla stiva di una nave, da Birkenau conduce a una Statua della Libertà mai inquadrata così (volutamente) male.

Lungi dall’adottare l’accumulo che Peter Greenaway scelse per il suo «Il ventre dell’architetto» (1987), Corbet sceglie una linearità misurata che richiama piuttosto il Paul Thomas Anderson di «Il petroliere» (2007), e colloca il suo manifesto d’intenti nell’eloquentissima fantasia dei titoli di testa che scorrono orizzontali, con genealogici motivi Bauhaus: il fluire di una strada che sembra un nastro, come fosse la pellicola stessa. Il titolo del film, «The Brutalist», sembrerebbe istruirci (qui, sì, alla maniera di Greenaway) su vicende ingegnose e piene di archipendoli, per poi svelarsi un dramma di metafora le cui coordinate storiche sono poste tanto nell’approdo del razionalismo postmoderno in Usa, quanto nel limite del sogno liberaldemocratico di Alexis de Tocqueville. La vicenda del fittizio architetto ebreo ungherese László Tóth (interpretato da Adrien Brody, ora pluricandidato agli Oscar) si snoda in un periodo che va dal 1946 al 1980, ma la sua non è un’avventura personale, possiede la guisa di una vicenda collettiva. La fuga dall’Olocausto e il rifugio in Usa rappresentano infatti l’intero esodo ebraico postbellico, un plot onnicomprensivo che va dall’architettura «carnivora» alla costituzione dello Stato d’Israele, dall’abuso del liberalismo a una Biennale d’Architettura, quella di Paolo Portoghesi del 1980, che nel film è rappresentata più come un costrutto retorico pieno di ellissi che come un effettivo evento storico.

«Gli architetti sono qua, hanno in mano la città», cantava Manuel Agnelli nel 1997, all’inizio di quel processo gentrificativo che avrebbe condotto Milano alle fasi urbanistiche attuali, in un’era avanzata in cui i non addetti ignoravano che, all’origine del processo, potesse collocarsi una folgorazione virtuosa, la stessa che il film di Corbet mira a evocare nel rapporto tra Tóth e il magnate Van Buren (Guy Pierce); la stessa che, in modo del tutto analogo, degenera in un amore malato che trasla il termine «brutalismo» da Le Corbusier agli incubi delle odierne soluzioni abitative. Oggi i nostri coffee table book recano titoli come Cccp. Cosmic Communist Constructions (di Frédéric Chaubin, Taschen 2017) o Soviet Bus Stops (di Christopher Herwig, Fuel Publishing, 2015), in riferimento a un’utopia al cemento che si pensava non fosse capace di invecchiare. E che invece il segreto della bellezza non risieda proprio lì, nella riscoperta capacità di invecchiare? Ecco uno dei mille sottotesti (tutti interrogativi) del film. E poi ancora: che cos’è il bello? Che cosa il brutto? In quale misura essi esistono in termini ideali? E infatti Tóth chiede a Van Buren: «Per descrivere le qualità di un cubo, serve altro oltre alla sua stessa natura?». E cos’è il «béton brut», ci chiediamo noi, se non una ricerca in direzione dell’ontologia del materiale, processo palingenetico simile a quello di certi liberalismi? In tale ottica non è nemmeno casuale l’accostamento con i marmi di Carrara, in una inquadratura che sembra accidentalmente rievocare «Testamento d’Orfeo» (1959) di Jean Cocteau per l’atavica sfida dell’uomo nell’imitazione (e limitazione) della natura: vedasi la definizione stessa di «arte». 

Vagando ancora tra i sottotesti pindarici si potrebbe anche arrivare a quel La mostra delle atrocità (1970) in cui J.G. Ballard colloca la terza guerra mondiale sullo zigomo di Ronald Reagan e affida al personaggio di Vaughan psicosi che gli rendono impossibile l’eccitazione sessuale in assenza di rigorosissime coincidenze geometriche. Allo stesso modo in cui László Tóth in «The Brutalist» non fornica con una prostituta a causa di uno spazio sopraccigliare difforme dal suo ideale. Forme dunque, geometrie, confini indeterminati, in un film che è un edificio a più piani (tantissimi, uno per cenno, o sottotesto), tutti da illuminare con una torcia elettrica, a beneficio di moltissimi quesiti attorno ai nostri coffee table. Fino al più consueto, quello che di solito si pone all’uscita dalla sala cinematografica: «Era bello o brutto?». Domanda a cui per ora non sappiamo dare risposta.

La pellicola si presentava alla notte degli Oscar 2025 (nella notte tra domenica 2 e lunedì 3 marzo) con ben 10 nomination, ma è tornata a casa con solo tre statuette: Miglior attore protagonista per Adrien Brody, Miglior fotografia per Lol Crawley e Miglior colonna sonora originale per Daniel Blumberg.

Luigi Di Felice, 03 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

«The Brutalist» e il segreto della bellezza | Luigi Di Felice

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