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Jan Vercruysse, «Grande Camera Oscura (Black Josephine III)». Ph. Enzo Ricci

Courtesy of Jan Vercruysse Foundation and Galleria Tucci Russo

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Jan Vercruysse, «Grande Camera Oscura (Black Josephine III)». Ph. Enzo Ricci

Courtesy of Jan Vercruysse Foundation and Galleria Tucci Russo

The Phair 2025: fino a domenica, la fotografia va in scena a Torino

Piccola, ma proprio per questo efficace. Cosa non perdere alla fiera torinese

Rischa Paterlini

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Dimenticate la definizione scolastica di fotografia: scrittura con la luce. Se mai ha avuto senso, oggi non basta più. Lo sa bene Roberto Casiraghi, direttore e fondatore di The Phair, che da sei edizioni costruisce a Torino una fiera che preferisce chiamare «censimento»: «non solo commerciale, ma critico e selettivo, su ciò che accade nell’arte attraverso l’immagine». Tra i corridoi, Casiraghi si mette letteralmente in gioco per uno shooting: lo incontro seduto in un carrello, schiena dritta, sorriso aperto, sguardo in camera. Una posa ironica, quasi dadaista, che restituisce lo spirito dell’intera manifestazione: intelligente, vivace, mai ingessata. Ospitata negli spazi delle OGR Torino – luogo simbolico di reinvenzione post-industriale – The Phair accoglie cinquanta gallerie, per lo più italiane, con presenze anche da Germania, Belgio, Svizzera e Gran Bretagna. È una fiera a misura d’occhio e di passo: il percorso obbligato aiuta a non perdersi nessuno stand, e lungo il tragitto alcune scoperte meno prevedibili sono ben piazzate dal team curatoriale, guidato dall’energico Lorenzo Bruni. Piccola? Sì. Ma proprio per questo efficace. In un panorama affollato, The Phair vince per la qualità della visione. E dimostra che, forse, oggi vedere meno significa davvero vedere meglio.

Appena spenti i riflettori sul Gallery Weekend berlinese, The Phair ne raccoglie il testimone portando a Torino una buona presenza di gallerie dalla capitale tedesca. Ad attirare lo sguardo, nello stand di Jaeger Art, è il lavoro di Gregor Törzs. «Per me non conta la tecnica, conta l’emozione – la tecnica è solo una conseguenza», mi racconta in una breve conversazione. E le sue opere lo confermano: ali d’insetto trasformate in tessiture orientali, vetri all’uranio che brillano nel buio, silhouette sospese tra materia e fantasia. Le stampe su carta giapponese donano a ogni immagine una densità quasi liturgica. È una fotografia che non cerca l’effetto, ma un ritmo lento e profondamente sensoriale. Da Kuckei + Kuckei, invece, l’artista Barbara Probst propone una riflessione sulla percezione del reale. Il trittico scattato alla Fondazione Prada, ad esempio, mostra lo stesso istante da tre punti di vista simultanei. «Non è ciò che si trova davanti all’obiettivo a determinare l’immagine. È il fotografo dietro l’obiettivo a decidere come la realtà verrà tradotta in immagine», afferma l’artista in un’intervista raccolta dal MoMA. Da Persons Projects arriva un dialogo tra più artisti, e tra questi spicca Janne Lehtinen con una serie in cui il corpo diventa materia poetica e narrativa. L’artista finlandese costruisce immagini cariche di tensione emotiva, in cui mette in scena sé stesso. La sua fotografia riflette sull’identità come atto di finzione e memoria, trasformando ogni scatto in un frammento teatrale, intimo e trattenuto. A completare il quadro berlinese, Luisa Catucci Gallery con i lavori di Nikita Teryoshin.

Anche la presenza italiana è solida, e spesso si scoprono opere poco note, come nel caso di BKV Fine Art di Milano, che riporta all’attenzione un lavoro di Mario Schifano: sei fotografie in bianco e nero, realizzate nella prima metà degli anni Settanta, intitolate «Senza titolo (Disastro domestico)». Un autoritratto costruito con abiti abbandonati, una maglietta con la scritta «Schifano», un televisore al posto della testa. L’installazione pare dialogare, come suggerisce il gallerista, con «Io che prendo il sole a Torino il 19 Gennaio 1969» di Alighiero Boetti, rivelando come già allora per Schifano la fotografia potesse farsi gesto concettuale. La milanese Artra presenta, tra gli altri, il lavoro di Armando Lulaj, con una serie che ritrae manifestanti, lavoratori e senzatetto dopo la protesta del 21 gennaio 2011 a Tirana, in cui quattro persone vennero uccise. I ritratti, scuri e frontali, mostrano i soggetti con un proiettile tra le labbra. Un gesto performativo che rende ogni immagine una dichiarazione. La fotografia come atto politico, come esercizio di responsabilità visiva.

Gregor Törzs, Wing Wing Color No. 1, 2016. Courtesy Jaeger Art

Allo stand di Tucci Russo invece le opere di Jan Vercruysse propongono una riflessione sofisticata sulla rappresentazione e sulla costruzione dell’immagine. La serie «Camera Oscura» (2001–2002) è composta da dittici in cui l’immagine «normale» è affiancata alla sua versione invertita, come uscita da una camera oscura. Riferimenti alla storia dell’arte, personaggi simbolici, costruzioni a specchio. Franco Noero propone una selezione di opere di Paulo Nazareth, artista brasiliano noto per la sua pratica performativa nomade. Le immagini, tratte dalla serie «Notícias de América», sono scattate durante un viaggio a piedi dal Brasile a Miami. Oggetti quotidiani, occhiali di fortuna, gesti minimi: la fotografia come diario di resistenza. Una sua opera è stata acquisita dalla Fondazione CRT ed entrerà in comodato d’uso gratuito al Castello di Rivoli. Da Beatrice Audrito Art Consulting, il fotografo e famoso regista Peter Chelsom espone una serie di ritratti dal titolo «Dream Role»: attori colti in pose sospese, drammatiche, teatrali. «Viviamo in un’era in cui l’intelligenza artificiale può creare qualsiasi immagine. Mi preoccupa che la fotografia abbia perso la sua strada. Solo gli esseri umani possono creare umanità», scrive. 

Alla storica Galleria Forni di Bologna, Vera Rossi presenta invece una fotografia meditativa, capace di catturare lo spazio intimo della natura, fatto di ombre, foglie e trasparenze. MC2 Gallery propone le opere dell’artista multimediale Pietro Catarinella, che lavora con AI, stampa e pittura. Le sue pale digitali fondono sacro, mitologia e corporeità erotica in una nuova iconografia post-umana. Un progetto ambizioso che inaugurerà a breve anche a Milano. L’artista Jean-Marie Reynier invece nello spazio Gaze-Off in collaborazione con Franco Marinotti, porta a Torino una nuova serie, intitolata semplicemente «Milano, 2025», che prosegue la sua personale indagine sul paesaggio dell’intimità e sull’ambiguità della memoria. Interessante anche il Focus Giovani Artisti, a cura di Eva Frapiccini: un progetto speciale dedicato a dieci voci under 40, italiane e internazionali. Non una sezione a parte, ma un innesto organico nel percorso della fiera. Tra le voci selezionate spicca il lavoro di Lilly Lulay, che presenta un’indagine sul nostro modo di vedere e comunicare, trasformando la superficie dell’immagine in campo di stratificazione visiva e concettuale.

Alla fiera viene da fare un’unica, piccola nota critica: il sito web, che meriterebbe un aggiornamento, sia nei contenuti sia nell’esperienza d’uso. Più agilità, più interazione, più accesso alle informazioni in tempo reale sarebbero un completamento utile alla qualità generale del progetto. Quella che avete letto è una selezione delle gallerie, non un podio: nessuna gerarchia, solo il tentativo di restituire la varietà di sguardi che The Phair raccoglie. Gli altri stand? Scopriteli dal vivo — e già che domani è la Festa della Mamma, perché non farlo con lei? Magari il regalo perfetto vi aspetta proprio lì.

Barbara Probst, Exposure #187, Milan, Fondazione Prada, Cisterna, 09.20.23, 5_35 p.m., 2023

Rischa Paterlini, 10 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

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